Mafie

Trattativa Stato mafia, il processo arriva in Cassazione: le due sentenze di primo e secondo grado e il ricorso dei pm di Palermo

È stata fissata per il prossimo 14 aprile l'udienza. A decidere sul ricorso presentato dalla Procura generale di Palermo contro la sentenza emessa il 23 settembre 2021, che aveva assolto gran parte degli imputati condannati in primo grado, saranno i supremi giudici della VI sezione penale

Arriva davanti ai giudici della Cassazione uno dei processi più importanti degli ultimi anni. La trattativa Stato mafia sarà al vaglio dei supremi giudici. È stata fissata per il prossimo 14 aprile l’udienza. A decidere sul ricorso presentato dalla Procura generale di Palermo contro la sentenza emessa il 23 settembre 2021, che aveva assolto gran parte degli imputati condannati in primo grado, saranno i supremi giudici della VI sezione penale. Con la sentenza di secondo grado, la Corte d’assise d’appello di Palermo aveva assolto “perché il fatto non costituisce reato”, l’ex senatore Marcello Dell’Utri, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, tutti e tre ex ufficiali del Ros, riducendo la pena a 27 anni per il boss corleonese Leoluca Bagarella e confermando la pena a 12 anni per il medico Antonino Cinà. In primo grado erano stati condannati a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, a 12 anni Dell’Utri, Mori, Subranni e Cinà e a 8 anni per De Donno. I militari dell’Arma sono stati assolti perché “agirono nell’interesse dello Stato”, anche se la loro iniziativa, secondo i giudici, fu “improvvida”. Mentre per quanto riguarda Dell’Utri per le toghe è mancato “l’ultimo miglio” ovvero la prova che trasmise la minaccia di Cosa nostra a Berlusconi.

“Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico – si leggeva nelle 2.971 pagine delle motivazioni dei giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo- deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”.

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Lo scorso ottobre il verdetto è stato impugnato. La Procura Generale di Palermo ritiene “contraddittoria” e “illogica” la sentenza. Per la procuratrice generale Lia Sava e i sostituti Giuseppe Fici e Sergio Barbiera “la Corte di assise di appello ha contraddittoriamente ed illogicamente assolto Subranni, Mori e De Donno, sul presupposto erroneo che gli stessi abbiano agito con finalità ‘solidaristiche’ e in assenza del dolo, anche sotto forma della volizione eventuale e pertanto accettata, ovvero di aver agito per alimentare la spaccatura asseritamente già esistente (ut infra) in Cosa Nostra tra l’ala stragista e l’ala moderata, amplificando, oltremodo, i motivi dell’agire illecito, pacificamente, irrilevanti ai fini della connotazione dell’elemento soggettivo”. Per la Pg, gli ufficiali dell’Arma “agirono consapevolmente nella certezza di ricevere richieste contrarie all’ordine pubblico, promosse da Cosa nostra, e di farsene latori innanzi gli organi istituzionali competenti per il loro soddisfacimento”. “Estremamente lacunoso”, “illogico e contraddittorio” sarebbe il riferimento all’assoluzione di Dell’Utri. L’ex senatore forzista, scrive la Pg, “è navigato ed esperto uomo di confine tra Cosa nostra e le alte sfere dell’imprenditoria nazionale”, nonché “amico scomodo del Presidente del Consiglio (Berlusconi, ndr), uomo comunque di straordinaria intelligenza e straordinaria capacità”. “Non è dato comprendere perché Dell’Utri – scrive la Pg – si sia tenuto per sé il messaggio ricattatorio dei vertici mafiosi non riportandolo al destinatario finale, che era colui per il quale si era interessato per la tessitura di un accordo elettorale, poi andato a buon fine”. Ovvero “l’ultimo miglio”, citato dai giudici di secondo grado nelle motivazioni, che sarebbe mancato nella comunicazione a Berlusconi del “progetto ricattatorio-minaccioso”, anche se Dell’Utri ne era a “piena conoscenza” per le sue “reiterate interlocuzioni con Vittorio Mangano”.