Il leader del partito tunisino Ennahda (Rinascita), Rachid Ghannouchi, è stato convocato dal Dipartimento antiterrorismo della Guardia Nazionale, nell’ambito di un’ondata di arresti e repressioni nei confronti di una serie di leader dell’opposizione locale, di giornalisti, imprenditori e sindacalisti, alcuni dei quali avevano preso parte alle manifestazioni anti governative di una settimana fa. Tra essi c’è anche la segretaria generale della Confederazione europea dei sindacati, Esther Lynch, che dopo un viaggio a Bruxelles era tornata a Tunisi per esprimere il suo sostegno alle proteste del sindacato Ugtt e ai lavoratori.
Ghannouchi, 82 anni, è in cattive condizioni di salute e la direttrice dell’ufficio legale del movimento ispirato alla Fratellanza musulmana ha definito il dossier che ha portato alla convocazione “privo di fondamenti”, nonché “sintomo di un utilizzo da parte del presidente Kais Saied di tattiche per silenziare le voci dell’opposizione, che potrebbero minare la stabilità del paese”.
Il portavoce di Ennahda, Imed Khemiri, ha poi ribadito che le autorità non hanno fornito alcuna spiegazione o dettaglio circa le motivazioni della convocazione, che sarebbe stata disposta in seguito alla denuncia sporta da una persona “non identificata”. Un altro membro del partito ha invece riferito che di mezzo ci sarebbe una “intercettazione telefonica” di Ghannouchi finita nelle mani di un poliziotto.
Secondo Amnesty International, da luglio 2021 sono almeno una trentina le personalità arrestate, perquisite o convocate dalle autorità in relazione alle loro critiche nei confronti della piega che sta prendendo il paese in termini di garanzie democratiche.
Il presidente Kais Saied, emerso nell’arena tunisina quattro anni fa come un “outsider”, dopo anni di stallo istituzionale dovuto all’estrema conflittualità tra partiti in un contesto politico rinnovato dopo la Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, non sembra voler recedere dalle sue posizioni, ed anche la sua retorica – che include la tendenza a definire “terroristi” gli oppositori del suo piano di concentrazione del potere volta alla “stabilità” nazionale – richiama la postura degli autocrati che per decenni hanno dominato la regione, e che nel caso della nascente democrazia tunisina sembravano relegati al passato.
La sua posizione è però nei fatti sempre più debole: al referendum che ha indetto lo scorso luglio per confermare una nuova Costituzione più restrittiva – meno potere ai partiti di opposizione, nell’ambito dello scivolamento da un sistema semi presidenziale ad uno presidenziale – ha partecipato non più del 30% della popolazione, percentuale che secondo molti osservatori potrebbe essere più bassa. Un referendum che è arrivato dopo due anni particolarmente turbolenti: a luglio 2021 aveva infatti deciso di sospendere il Parlamento, che a fine marzo era stato definitivamente sciolto.
Proprio Ghannouchi aveva guidato il Parlamento dopo la sua sospensione a luglio 2021, sostenendo l’ascesa di Saied, così come avevano fatto i leader sindacali dell’Ugtt, coi quali il conflitto è nato in relazione alla trattativa per un prestito del Fondo Monetario Internazionale, rispetto al quale le autorità avrebbero rinnegato un accordo per aumenti salariali dei lavoratori del settore pubblico, oltre ai sussidi sul carburante, tagli al welfare e privatizzazione di alcune aziende pubbliche. Il paese nel frattempo è in crisi nera: la disoccupazione è oltre il 20%, percentuale simile alle persone sotto la soglia di povertà, mentre l’inflazione ha superato la soglia del 10%; il debito oltre i 50 miliardi, la crescita inferiore all’1,5%, mentre scarseggiano beni di prima necessità come latte e burro.
Lo scorso ottobre, il Parlamento europeo aveva adottato una risoluzione in cui esprimeva “estrema preoccupazione” per il processo di concentrazione del potere avviato da Saied, invocando un ritorno all’ordine costituzionale precedente. Anche in questo caso in modo non dissimile da alcuni autocrati del passato, Saied ha prontamente giocato e continua a giocare la carta “populista”, quella che tende a cassare le “sollecitazioni” dell’Unione europea come “interferenze”.
Ma i suoi principali critici, ormai, non sono più all’estero ma a Tunisi, ed invocano in modo sempre più deciso le sue dimissioni. Lo si era d’altronde già visto lo scorso settembre, quando una dichiarazione congiunta di una serie di partiti politici tunisini affermava senza mezzi termini che il presidente ha perso la sua legittimità e sta portando il paese nuovamente sotto la dittatura, governando a colpi di decreto, senza alcuna opposizione ormai da due anni, grazie a “poteri d’emergenza” che si è attribuito sfruttando un articolo della Costituzione del 2014.