Segreto assoluto sui lavori del Giurì d’onore che dovrà esprimersi sul caso-Donzelli. Mercoledì si è riunito per la prima volta l’organo della Camera istituito su richiesta dal Pd dopo le frasi rivolte in Aula dal deputato FdI Giovanni Donzelli a quattro deputati dem, accusati di “stare dalla parte dei terroristi con la mafia” per la loro visita in carcere all’anarchico Alfredo Cospito. Il presidente è l’ex ministro Sergio Costa (M5s), gli altri componenti sono Fabrizio Cecchetti (Lega), Annarita Patriarca (Forza Italia), Roberto Giachetti (Azione-Italia viva) e Alessandro Colucci (Noi con l’Italia). In base al regolamento, la commissione dovrà “verificare quanto accaduto e la correttezza delle affermazioni” di Donzelli, presentando entro il 10 marzo le proprie conclusioni alla Camera, che ne prende atto “senza dibattito né votazione“. A dispetto del nome, però, il Giurì nostrano non sarà pubblico come i Grand jury dei film americani: il presidente Costa ha imposto la segretezza totale sugli atti fino alla pubblicazione della relazione finale. E a chi gli chiede un commento sulle attività risponde: “Ho messo il segreto e quindi io rispetto la riservatezza”.

In apertura di seduta, alle 10:15, erano in programma le comunicazioni del presidente, mentre a partire dalle 10:30 si sono svolte le audizioni dei deputati Debora Serracchiani, Silvio Lai e Andrea Orlando, tre dei quattro membri della delegazione che il 12 gennaio scorso ha fatto visdita a Cospito nel carcere di Sassari. Subito dopo, su sua richiesta, è stato ascoltato anche il quarto, il senatore Walter Verini, nonostante appartenga all’altro ramo del Parlamento. Nel pomeriggio, dalle 16:30, è stato invece ascoltato l'”accusatore” Donzelli. “Come sempre sono fiducioso nelle istituzioni, non commento per non alzare i toni ma sicuramente ad oggi rifarei quello che ho fatto”, dice il deputato di FdI, uno degli uomini più vicini a Giorgia Meloni. “Mi aspetto che si faccia luce su una dichiarazione che ha portato a questo giurì, che evidentemente ha qualcosa da verificare”, dichiara invece Serracchiani, capogruppo dem a Montecitorio, dopo la sua testimonianza, durata circa cinquanta minuti. Mentre l’onorevole Lai si trincera dietro il segreto: “È una procedura riservata e mi attengo a questi criteri”.

Il più loquace invece è Orlando: “Spero di essere riuscito a spiegare quello che volevo spiegare”, dice. “Spero di essere riuscito a chiarire sia sul fronte della lesione dell’onorabilità delle singole persone, sia per quanto riguarda la difesa dell’istituto delle visite in carcere dei detenuti da parte dei parlamentri, perché se andare a fare una visita ai detenuti in carcere fosse una causa della lesione dell’onorabilità dei parlamentari, e mi auguro che questo non avvenga, sarebbe un vulnus anche all’istituto stesso che nel corso degli anni ha portato a risultati positivi. Il prossimo parlamentare al quale venisse in mente di andare a fare una visita in carcere, infatti, ci penserebbe due volte prima di farlo, qualunque sia la situazione”, spiega. “E invece penso che, al di là della nostra situazione specifica, difendere questa pratica sia difendere una molla che ha costituito nel corso degli anni uno stimolo a migliorare la situazione degli istituti di pena, e lo dico anche da ex ministro della Giustizia, che spesso si è mosso sulla base del fatto che alcuni parlamentari di tutte le forze politiche mi segnalavano che c’erano situazioni di difficoltà che si registravano nelle carceri italiane”, conclude.

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