L’Unione europea ha approvato il divieto di vendere auto a combustione interna a partire dal 2035, con l’obiettivo di ridurre le emissioni del settore automobilistico del 55% sulle nuove vendite entro il 2030. Una legge a lungo sollecitata dai movimenti ecoclimatici e non solo: il trasporto su gomma causa infatti il 74.5% delle emissioni del settore dei trasporti (sette volte tanto l’aviazione) ed è pertanto un’area in cui gli interventi di decarbonizzazione sono cruciali. Alcune soluzioni tecnologiche già esistono e sono da decenni alla portata delle grandi case automobilistiche. Il governo italiano si è schierato contro questa misura europea: secondo il ministro degli Esteri, Antonio Tajani e altri colleghi di governo, si tratta di un provvedimento troppo accelerato, che non dà sufficiente tempo alle industrie italiane per adeguarsi.
L’affermazione di Tajani sorprende se si considera che il testo di legge è stato stilato in accordo con le grandi case automobilistiche europee (fra cui colossi del calibro di Peugeot, Mercedes e Ford). La politica industriale di Volkswagen, ad esempio, punta alla vendita di sole auto elettriche entro il 2033. Scelte strategiche di questo tipo non sono necessariamente vocate a offrire, da parte dell’automotive, un contributo dirimente al collasso eco-climatico. Più realisticamente l’industria automobilistica europea è in affanno: sconta tre anni di Covid, la crisi logistica delle componenti e l’inflazione, tutti elementi che hanno reso l’acquisto di auto nuove un lusso fuori portata per molti cittadini.
La transizione a un parco auto completamente elettrico rappresenta quindi la speranza che il settore automobilistico possa riprendersi investendo sulle nuove tecnologie e rendendole più economicamente accessibili ai consumatori. Una mira squisitamente industriale dunque che cozza con uno dei principi basilare della transizione ecologica/energetica e cioè la frugalità: bisogna asciugare i consumi, non si può pensare di rimpiazzare l’attuale parco macchine con motore a scoppio con uno elettrico. E’ un approccio schizofrenico, totalmente scollato dalla realtà.
In avversità alla misura europea, il governo italiano sostiene inoltre che il nuovo provvedimento europeo favorirà la presenza dei produttori cinesi sul mercato automobilistico elettrico. In termini di import/export del prodotto finito (la vettura) è una affermazione fuorviante in quanto la Cina è la principale destinazione di vendite automobilistiche per i produttori europei, senza però avere esportazioni significative. La produzione delle grandi case orientali infatti è concentrata sul mercato interno e, nel 2022, solo l’11.5% delle auto prodotte in Cina è stato venduto oltremare, principalmente in India e altri paesi asiatici limitrofi.
L’affermazione del governo italiano può essere vera per quanto riguarda la componentistica e le materie prime necessarie alla produzione di auto elettriche, ma la verità è che la Cina gioca un ruolo strategico per tutte le industrie coinvolte nella transizione e nell’automazione, non solo per l’automotive quindi.
Dal lato eco-climatico il nuovo divieto europeo indica una scala temporale fin troppo dilatata rispetto all’urgenza della crisi climatica. Inoltre è in contraddizione con politiche urbane che dovrebbero offrire sempre più spazio a una mobilità pubblica condivisa e sostenibile. In breve, questo divieto non sarà sufficiente a ridurre le emissioni globali, specialmente se si delineasse come un’occasione per le case automobilistiche per vendere i propri “carbon credits” ad altre aziende fossili permettendo a queste di continuare a emettere impunemente alimentando un circolo malefico. Senza dimenticare ulteriori necessari provvedimenti per impedire l’obsolescenza programmata delle batterie delle auto, per impedire che i consumatori siano costretti all’acquisto di auto elettriche la cui vita su strada è limitata dalla durata delle singole componenti.
Ciò di cui abbiamo bisogno è una radicale revisione delle politiche dei trasporti di persone e beni, possibile solo se alla sua programmazione partecipano tutte le parti in causa, cittadini compresi, non solo le massime istituzioni e le aziende automobilistiche. Le modalità con cui pensiamo i nostri spostamenti quotidiani e ci approvvigioniamo delle risorse necessarie devono poter essere condivise, consapevoli e accessibili per poter essere sostenibili. Le Assemblee Cittadine che chiediamo di istituire sin dal 2019 sono uno strumento utile a coniugare sostenibilità climatica e giustizia sociale, anche e soprattutto in scelte strategiche ed epocali come questa.