Per una regione tradizionalmente caratterizzata dalla stabilità geopolitica come l’Asia Centrale, l’invasione russa dell’Ucraina iniziata esattamente un anno fa ha rappresentato uno spartiacque: la Russia è diventata dall’oggi al domani un partner scomodo e imprevedibile. Una situazione che ha portato perlomeno alcune delle repubbliche regionali a iniziare un percorso di progressivo distanziamento da Mosca, proprio nel momento in cui invece il Cremlino ha la necessità di rinsaldare le poche amicizie che a livello internazionale rimangono. Un percorso per forza di cose accidentato, considerata la grande influenza – politica, militare, economica, logistica – su cui la Federazione può ancora far leva.
L’ultimo esempio in ordine di tempo della tendenza in atto, la questione relativa alle cosiddette “Iurte dell’Invincibilità”, strutture umanitarie installate a Bucha, Kiev, Kharkiv e Leopoli, dietro alle quali vi è un gruppo di attivisti kazachi. L’iniziativa ha irritato le autorità russe, frustrazione a cui il Kazakistan ha risposto con un’alzata di spalle. Ma è fin dall’inizio dell’operazione militare che tra Russia e Kazakistan si registrano tensioni più o meno implicite. Astana ad esempio si è affrettata, dopo il riconoscimento da parte di Mosca delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk, a dichiarare di non considerare in agenda l’ipotesi che lo stato kazaco possa fare altrettanto. Una posizione che ha quasi scatenato una seria crisi diplomatica quando il leader kazaco, Kassym-Jomart Tokayev, ha ribadito questa decisione davanti a Putin durante il Summit Economico Internazionale di San Pietroburgo dello scorso giugno.
D’altronde per il Kazakistan rimanere neutrale nel caso di un’annessione giustificata da ragioni di affinità etnica è una vera e propria necessità. La parte settentrionale del Kazakistan, che confina con la Russia, è un’area da sempre a maggioranza russofona e in passato non sono mancati riferimenti da parte di figure politiche di primo piano alla possibilità che Mosca possa prima o poi pensare di mettervi gli occhi sopra dal punto di vista territoriale. Dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, l’attenzione all’integrità territoriale kazaca è stata anche sottolineata, a sorpresa, da Xi Jinping: durante la sua visita in Kazakistan dello scorso settembre, primo viaggio all’estero dall’inizio della pandemia, il leader cinese ha infatti dichiarato la volontà di Pechino di supportare il governo di Tokayev nella difesa della salvaguardia del proprio territorio. Un chiaro monito inviato al Cremlino.
La volontà di mantenersi il più possibile neutrali è stata portata avanti anche dall’Uzbekistan: Tashkent ha proceduto in maniera meno netta rispetto ad Astana, ma con l’obiettivo parallelo di evitare qualsiasi associazione alla Russia agli occhi della comunità internazionale. Le altre tre repubbliche dell’area si sono invece tenute maggiormente neutrali, avendo in generale minori margini di manovra e dipendendo maggiormente dalla Russia dal punto di vista economico. Con un’eccezione significativa, anche se probabilmente più legata alla sfera domestica. A ottobre, infatti, il leader del Tagikistan, Emomali Rahmon, ha tenuto un discorso durante un summit tra le Repubbliche dell’area e la Russia, dicendo in faccia a Putin che i paesi centro asiatici non vogliono essere più trattati come se esistesse ancora l’Urss. L’imbarazzo in sala è stato evidente e il video dell’evento ha generato milioni di visualizzazioni. Questa inattesa fuga in avanti da parte di un alleato di ferro del Cremlino è stata, giustamente, letta come un tentativo del leader tagico di far pesare il proprio ruolo per ottenere ulteriori concessioni economiche, militari e politiche in un momento di grande isolamento di Mosca. Lettura condivisibile, ma che comunque non deve far trascurare il grande significato simbolico di una dichiarazione così netta rilasciata alla presenza dell’inquilino del Cremlino.
I contraccolpi geopolitici rispetto alla relazione con Mosca si sono accompagnati anche a ricadute economiche e sociali significative sull’Asia Centrale. La fuga di centinaia di migliaia di cittadini russi dalle sanzioni e dall’arruolamento forzato ha ad esempio causato un impatto economico – poi parzialmente rientrato – sulle fragili economie regionali, a causa dell’arrivo nella zona di persone con un potere d’acquisto molto più alto della media centro asiatica. Sempre sul fronte economico, le rimesse che i milioni di migranti dell’Asia Centrale inviano in patria dai grandi centri urbani russi in cui si spostano per trovare lavoro sono crollate all’inizio dell’invasione russa. Un trend che poi si è invertito ma che ha fatto temere il peggio in termini di tenuta dei contesti sociali regionali.
Per quanto riguarda Putin, il leader russo ha cercato di rinsaldare i propri rapporti con i partner centro asiatici, intrattenendo decine di incontri – fisici o virtuali – per ribadire la propria vicinanza alla regione. In altri casi l’inquilino del Cremlino ha invece optato per messaggi ancora più espliciti – come la temporanea interruzione del flusso dell’oleodotto che, passando dalla Russia, consente al Kazakistan di esportare la quasi totalità del petrolio destinato al commercio estero. Come a dire: un’oscillazione nei rapporti è contemplata, ma una vera e propria rottura della relazione non sarebbe accettata e porterebbe a contromisure estreme. Nel 2023, anche se dovesse terminare il conflitto in Ucraina, difficilmente i rapporti tra Mosca e le capitali centro asiatiche torneranno a un livello simile a quello riscontrato prima del 24 febbraio 2022. Allo stesso modo, però, la Russia non è un partner che in Asia Centrale può essere messo in disparte a cuor leggero.