È l’estate di Italia ’90. Il sogno delle notti magiche ad agosto è ormai sfumato ma davanti ai baretti di periferia si discute ancora dei gol di Totò Schillaci. Anche i sogni di una ragazza di Roma sud trovano un triste epilogo nel quartiere “dei ricchi”. Il 7 agosto del 1990 il corpo di Simonetta Cesaroni viene trovato esanime e nudo sul pavimento di un ufficio in un bel palazzotto di Prati, sede del Comitato regionale degli Ostelli della gioventù. È stata ammazzata con 29 coltellate nella stanza direttore che era in ferie. Una stanza in cui non sarebbe dovuta entrare. La presunta arma del delitto, un tagliacarte, viene rinvenuta là dove avrebbe dovuto essere anche se, proprio quella mattina era stata cercata invano da una impiegata. Quello di via Poma è il delitto irrisolto per eccellenza, talmente fitto di enigmi da evocare un film di Alfred Hitchcock: tre indagati, poi tutti prosciolti e nessun colpevole. L’assassino della ragazza di Cinecittà è ancora a piede libero e la procura di Roma ci sta riprovando a trovarlo. Dopo un secondo esposto presentato dai familiari della Cesaroni, pochi mesi fa sono state riaperte le indagini dalla Procura di Roma.
Dopo 32 anni, è difficile non perdersi nel manto di caos che avvolge l’omicidio di Simonetta ma intanto ecco cosa è emerso di nuovo. Il 14 luglio 2022 la Commissione Bicamerale Antimafia inizia ad occuparsi del delitto di via Poma. Dalla relazione finale sulle indagini su Via Poma emergono tre punti nodali che potrebbero anche essere al centro delle nuove indagini della Procura. In conclusione: i possibili autori dell’omicidio avevano un comodo punto d’appoggio nel palazzo o in zone limitrofe (tanto da trovarvi riparo dopo il delitto); sono quasi certamente di gruppo sanguigno di tipo A e soprattutto erano noti alla vittima, almeno in termini di conoscenza superficiale, tanto da apparire non pericolosi agli occhi di Simonetta.
Ripercorriamo adesso tutta la vicenda giudiziaria a ritroso. L’ultima sentenza risale al 2014, quando la Cassazione conferma l’innocenza – già pronunciata in appello – di Raniero Busco, l’ex fidanzato della ragazza, che in primo grado era stato condannato a 24 anni di carcere. A incastrarlo, tracce del suo Dna ritrovate sul corpetto e sul reggiseno della vittima, evidentemente consequenziali a un recente rapporto sessuale tra i due. A scagionarlo, con una dura sentenza nei confronti della Procura, sarà l’inconsistenza delle prove e soprattutto la scarsa credibilità del movente proposto dall’accusa.
Prima di lui, nell’aprile del ’92, è indagato Federico Valle. In quel palazzo suo padre ha lo studio legale e ci vive il nonno, l’anziano architetto Cesare Valle che la notte del delitto ospita il portiere Pietrino Vanacore che gli presta assistenza. A coinvolgerlo è un austriaco, tale Roland Voller, informatore della polizia dal passato piuttosto equivoco. L’uomo è amico della madre di Valle, Giuliana Ferrara la quale gli avrebbe velatamente detto che la sera del delitto, il figlio sarebbe tornato a casa in stato di forte agitazione e con altri segni evidenti – secondo le dichiarazioni di Voller – della sua colpevolezza. La Ferrara ammette di conoscere Voller ma dice anche di non averlo mai reso partecipe di quella presunta confidenza. Il 16 giugno 1993 il gip Cappiello proscioglie Valle per non aver commesso il fatto e lo stesso Vanacore, indagato per favoreggiamento, perché il fatto non sussiste. Non è la prima volta che Vanacore finisce al centro delle indagini. Il portiere di via Poma è il primo ad essere indagato e incarcerato per l’omicidio della ragazza, pochi giorni dopo il delitto, il 10 agosto. Si contraddice sull’alibi pomeridiano e su un suo pantalone vengono individuate alcune macchie di sangue, che poi si rivelerà non appartenere a Simonetta. L’uomo viene scarcerato dal tribunale del Riesame il 30 agosto. Il 26 aprile del 1991 il gip archivia gli atti riguardanti Pietrino Vanacore e altre cinque persone. Ma Vanacore non riuscirà mai a liberarsi dal tormento di essere entrato nell’immaginario collettivo come il truce assassino. Va via da Roma, torna a vivere in provincia di Taranto nel suo paese di origine dove il 9 marzo del 2010 si suicida annegando in 50 centimetri di mare, a pochi giorni dalla sua deposizione prevista per il processo contro Raniero Busco.
Riavvolgiamo il nastro: poco più di un anno fa, sono stati ascoltati testimoni segnalati da Antonio Del Greco, poliziotto a capo delle indagini all’epoca dei fatti e fino al ’92. Del Greco avrebbe raccolto la testimonianza di due donne, una delle quali è la moglie di una persona avrebbe avuto rapporti con l’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, allora presidente regionale degli Ostelli della gioventù. La donna avrebbe raccontato all’ex poliziotto che proprio il 7 agosto il marito, ormai deceduto, avrebbe portato una camicia pulita in via Poma. L’altra è una ex collaboratrice di Caracciolo che – sempre a detta di Del Greco – avrebbe messo in dubbio il ferreo alibi dell’avvocato che quel giorno – dichiarò – aveva accompagnato sua figlia e delle amiche all’aeroporto di Fiumicino. In ogni caso l‘avvocato, che ha sempre dichiarato di non aver mai conosciuto Simonetta, è deceduto quasi sette anni fa. Dopo qualche accertamento, con un comunicato ufficiale, la procura di Roma dichiara: “Nulla di nuovo è emerso, rispetto a quanto già non si conoscesse”. Quasi parallelamente, le indagini della Commissione Bicamerale Antimafia inizia le indagini per cui raccoglie le audizioni della sorella della vittima Paola Cesaroni, del suo avvocato Federica Mondani e dello scrittore Igor Patruno che segue il caso sin dall’inizio.
È proprio Patruno a spiegarci perché intanto anche la Procura, quasi un anno, ha riaperto un fascicolo contro ignoti dopo la presentazione di un secondo esposto da parte di Paola Cesaroni. “In quell’esposto si indicano alcuni soggetti maschili – dice Patruno – che avrebbero potuto essere in via Poma il 7 agosto e il cui alibi non è stato verificato”. Per Igor Patruno, l’assassino è un territoriale e non è stato individuato anche per il muro di omertà da parte di persone che nel suo libro Il delitto di via Poma lo scrittore definisce “uno spaccato della peggiore Italia di quel periodo. Gente dal passato non propriamente limpido, emanazioni di potentati politici. Donne e uomini avvolti nei loro segreti, poco sensibili al dolore generato dall’evento, preoccupati solo di salvaguardare la propria incolumità. Quella gente è gretta e non ha raccontato la verità per proteggere i propri piccoli segreti”. Anche il pm Roberto Cavallone, titolare insieme alla Calò del fascicolo sul processo all’ex fidanzato della Cesaroni, all’inizio della sua inchiesta e prima del ritrovamento del Dna di Busco sul corpetto della vittima, nel 2004, aveva scritto: “Tutto questo fa pensare che l’autore dell’omicidio avesse una qualche relazione con quell’ufficio”.
Come si arriva a questa deduzione? Sembra che qualcuno abbia scoperto il corpo dilaniato a morte di Simonetta prima della sorella Paola che quella notte, non vedendola rincasare, va a cercarla a via Poma insieme al fidanzato Antonello, al datore di lavoro di Simonetta, Salvatore Volponi e a suo figlio Luca Volponi. Prima di arrivare in via Poma, Paola non riesce a trovare l’indirizzo dell’ufficio anche perché Volponi non lo ricorda, o almeno così dice alla sorella della vittima. Questa è una delle incoerenze che costellano l’omicidio di Simonetta: il suo datore di lavoro non ha idea di dove lavori la sua dipendente. Risulta strano anche a Paola Cesaroni, anche perché Volponi quel lavoro presso sede del Comitato regionale degli Ostelli della gioventù lo aveva ottenuto, insieme al suo socio Ermanno Bizzocchi, andando a parlare con Caracciolo che aveva il suo studio a 70 metri da via Poma.
Dell’ipotesi che il delitto fosse stato scoperto prima dell’arrivo di Paola, era convinta il procuratore aggiunto Ilaria Calò, l’ex pm titolare delle indagini a carico di Raniero Busco. Nelle sue conclusioni, aveva scritto che qualcuno aveva scoperto il delitto già prima della sorella e invece di chiamare i soccorsi, preferì informare i vertici dell’Aiag, l’Associazione italiana degli ostelli della gioventù (prima il direttore Carboni, poi il presidente Caracciolo, poi Volponi, l’altro socio Bizzocchi era già partito per le vacanze) per capire il da farsi. Nelle sue conclusioni la Calò ha ipotizzato che a scoprire il cadavere sarebbe stato il portiere Pietrino Vanacore. Sarebbe stato lui, a cercare di telefonare Caracciolo di Sarno, nella sua tenuta di Tarano, in provincia di Rieti. Lo confermerebbe l’agendina targata Lavazza, che Vanacore avrebbe dimenticato nell’appartamento in cui è stata ritrovata Simonetta. Tale agendina, con tanto di rubrica telefonica, venne poi per errore restituita ai genitori di Simonetta dagli inquirenti, certi che appartenesse alla ragazza, salvo poi scoprire che era di Vanacore. A interrompere la catena causale, forse finalizzata all’occultamento del cadavere, l’arrivo di Paola Cesaroni in via Poma.
Questo è quanto emerge anche dalle intercettazioni ambientali fatte da Cavallone, nel 2008, che attestano di quelle telefonate, la sera del 7 agosto. L’avvocato Caracciolo di Sarno non disponeva di un telefono nella sua tenuta e quindi per contattarlo Vanacore avrebbe composto il numero del suo fattore, Mario Macinati, indagato per falsa testimonianza per via del suo atteggiamento poco collaborativo. Una di queste intercettazioni, registrata all’interno dell’auto di famiglia, cattura la conversazione tra il figlio di Macinati, Giuseppe e sua madre che avrebbe risposto al telefono della tenuta. La donna parla con il figlio di due telefonate provenienti da Roma, dalla sede degli ostelli. Nella prima che risale alle 20,30 le si chiede di avvertire l’avvertire il presidente degli ostelli. Nella seconda, come si legge dal verbale, lo soggetto insiste per parlarci.
C’è ancora un’altra coincidenza piuttosto inquietante che ricade sulla figura dell’avvocato “dei misteri”. Il pregiudicato Massimo Carminati, nel luglio del 1999, riuscì a svuotare il contenuto del caveau della banca all’interno della città giudiziaria di Roma, a Piazzale Clodio, al fine di ricattare nei confronti una fitta congerie di “pezzi da 90” con ruoli di prestigio e non di rado anche chiamate ad indagare o rendere giustizia, a vario titolo, su alcuni degli episodi di sangue più gravi della storia repubblicana. Tra le 900 cassette di sicurezza ne vennero aperte – in maniera precisa e mirata – solo 147 e una di queste era intestata a Francesco Caracciolo di Sarno. Questo conferma il ruolo di potere e un’influenza tutt’altro che trascurabile quando, fu uccisa Simonetta Cesaroni.
Il 20 giugno 2022 la Procura di Roma ha riaperto un fascicolo contro ignoti relativo al delitto di via Poma affidandolo al pubblico ministero Gianfederica Dito. Per ora, c’è il Dna di un profilo genetico ignoto individuato dal Ris. Questo Dna è stato ritrovato su una delle due tracce ematiche rinvenute sull’ascensore del palazzo dell’ufficio in cui ha trovato la morte la Cesaroni. Poiché l’altra traccia è sangue di Simonetta, a rigor di logica quella appartenente al soggetto ignoto dovrebbe indicare l’assassino, anche perché quel profilo genetico non è di Busco né degli altri 30 soggetti di sesso maschile a cui, durante le indagini a carico dell’ex fidanzato, venne prelevato un campione. Tutto ciò che sappiamo è che il colpevole potrebbe rientrare tra coloro il cui alibi non è stato verificato e che la sera del 7 agosto avrebbero potuto trovarsi in quella maledetta palazzina.