Assassini fermati praticamente in flagranza di reato, ma per giorni nessuno ne conosce l’identità: neanche i vicini di casa o gli amici. Che quindi magari denunceranno la scomparsa del killer, nel frattempo finito in galera. Lo stesso avviene per le vittime, che a volte restano senza nome: morti sul lavoro o pure persone rimaste uccise in incidenti stradali. Ma il mistero regna sovrano pure per cose più banali, come pub e ristoranti chiusi perché non rispettano le più elementari regole igienico sanitarie: nei comunicati i vigili urbani evitano di specificare i nomi dei locali sanzionati. E dunque i cittadini non sapranno mai di aver mangiato in un posto con i topi in cucina. E dopo la riapertura, magari, ci torneranno. L’ultimo effetto nefasto creato dalle norme introdotte da Marta Cartabia è un buco nero informativo senza precedenti. Un bavaglio che distorce completamente le normali dinamiche della cronaca nera e giudiziaria, facendo scomparire i fatti dalle pagine dei giornali e violando il diritto ai cittadini a essere informati. Non stiamo parlando delle notizie sulle grandi inchieste che coinvolgono politici accusati di corruzione o favoreggiamento alla mafia. A svanire dai quotidiani sono soprattutto le cronache delle vicende più piccole, quelle maggiormente legate ai territori e che per questo interessano maggiormente alla cittadinanza: omicidi, morti sul lavoro, incidenti. In questo senso la norma varata dal governo di Mario Draghi è una museruola che comincia a dare i suoi effetti a Milano, a Genova, a Palermo. E che viola l’articolo 21 della Costituzione.

Come funziona il “bavaglio Cartabia” – L’avevano ribattezzato decreto sulla presunzione d’innocenza, come la direttiva europea recepita dall’esecutivo nel novembre del 2021. In realtà, con la scusa di mettere un freno ai cosiddetti processi mediatici, è stata imposta una stretta a tutta l’informazione giudiziaria. In quel decreto, infatti, accanto a regole condivisibili (“la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando ricorrono rilevanti ragioni di interesse pubblico“), principi già sanciti in Costituzione (il diritto della persona indagata a non essere considerata colpevole fino a sentenza passata in giudicato) e norme quantomento originali (il divieto di assegnare alle inchieste “denominazioni lesive della presunzione di innocenza”) c’è anche il divieto per pm e investigatori di parlare coi giornalisti: lo può fare solo il procuratore capo e solo con comunicati ufficiali. Che devono seguire stringettissimi paletti lessicali. “È fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. Cosa vuol dire? La norma è assai vaga, ma le conseguenze no: “Sanzioni penali e disciplinari”, “obbligo di risarcimento del danno” e “rettifica della dichiarazione resa”. L’effetto è che spesso i comunicati delle procure sono vuoti: non ci sono i nomi degli indagati, ma a volte neanche quelli delle vittime. In certi casi di “particolare rilevanza pubblica“, poi, è concessa la possibilità di organizzare una conferenza stampa. Ma chi decide se un’indagine ha o meno rilevanza pubblica? Sempre il procuratore capo, che dunque se vuole può lasciare nei cassetti, lontano dai riflettori, alcune determinate indagini. Nessuno potrà contestare agli inquirenti di aver fatto scelte sbagliate o magari aver violato la legge se quelle scelte non sono note. In questo senso il decreto sottrae di fatto l’autorità giudiziaria al controllo della stampa. Viceversa nelle fasi successive all’esecuzione di un’ordinanza, quindi dopo l’eventuale comunicato o conferenza stampa, saranno gli avvocati difensori gli unici a poter comunicare con gli organi d’informazione. E dunque quando si parla di interrogatori di garanzia o decisioni del tribunale del Riesame è possibile che finiscano sui giornali solo notizie utili all’indagato. Magari inesatte o imprecise, se qualcuno non le rettifica. Ma le procure dovrebbero fare praticamente un comunicato di smentita a settimana.

“Volevano zittire la stampa. Hanno zittito le fonti” – Potranno parlare i parenti di Riina e Provenzano, non lo potranno fare più il procuratore e il questore”, era l’esempio fatto da Nino Di Matteo per spiegare gli effetti paradossali del decreto davanti al Csm. Il magistrato aveva pure spiegato che, se il provvedimento fosse stato in vigore ai tempi del primo Maxiprocesso alla mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sarebbero stati sanzionati perché commentarono pubblicamente le scoperte legate alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, molto prima che quei fatti fossero cristallizzati in sentenze definitive. È quello che prevede il bavaglio varato da Marta Cartabia: un pm o un procuratore capo accusato di aver violato il decreto rischia l’ammonimento, la censura, la perdita di anzianità, persino la sospensione dalle funzioni. “È come mettere il limite di velocità a 30 all’ora in autostrada: non lo rispetterà nessuno, ma se voglio posso usarlo per massacrare chi va a 35″, dice Cesare Giuzzi, giornalista del Corriere della Sera, a lungo presidente e attuale tesoriere del Gruppo cronisti lombardi. Giuzzi racconta come gli effetti peggiori della riforma siano quelli provocati da chi, magari nel timore di sbagliare, dà un’interpretazione ancora più stringente del già strettissimo bavaglio. “È uno strumento perfetto in mano a chi non vuole parlare: nessuno sa bene come vada gestita questa cosa, quindi gli ufficiali di pg nel dubbio non parlano, visto che sono gli unici a pagarne le conseguenze, essendo gli ultimi anelli della catena. È una legge che è stata fatta per bloccare loro e solo indirettamente noi: per tanti anni hanno provato a mettere un bavaglio all’informazione, non ci sono riusciti e l’hanno messo alle fonti”, dice il cronista del Corriere, che si occupa da molti anni di nera a Milano. “Sabato – racconta – quando abbiamo chiamato la centrale operativa dei Vigili per l’incidente del tram in via Torino, ci hanno detto che non erano più autorizzati a parlare e dovevamo parlare con l’ufficio stampa dell’assessore. Questo perché col decreto le forze di polizia giudiziaria non possono dirti niente: così se qualcosa esce, è molto facile individuare chi lo ha dato”.

Comunicati che non comunicano – Per i cronisti di nera del capoluogo lombardo non era andata meglio il giorno prima, quando in zona Città studi un ragazzo di nazionalità algerina era stato ucciso con una coltellata da un uomo marocchino: i carabinieri avevano seguito le tracce di sangue per alcuni metri ed erano arrivati all’appartamento dell’aggressore. “Ma c’è stato un veto del magistrato – racconta Giuzzi – così siamo rimasti aggrappati per ore nell’attesa di avere informazioni e non abbiamo ancora saputo il nome dell’assassino, mentre quello della vittima l’abbiamo scoperto solo per vie traverse. Parliamo di un omicidio in cui la persona era stata fermata praticamente in flagranza, quindi senza grandi misteri investigativi. E non di una storia da prima pagina”. In teoria l’unico autorizzato a parlare con la stampa è il procuratore capo. “Ma in una città come Milano è la follia: hai venti testate concorrenti e cinque notizie di giudiziaria al giorno, vorrebbe dire che il procuratore dovrebbe passare la giornata al telefono con i giornalisti. Sempre che sia a conoscenza dei dettagli dell’indagine, altrimenti dovrà a sua volta informarsi con il magistrato che sta seguendo il caso”, spiega il cronista del Corriere. Non servono a molto neanche i comunicati stampa: “Non c’è scritto niente, non danno neppure gli elementi essenziali, però rispettano perfettamente la forma. Se non riuscissimo a recuperare le carte saremmo morti, il lavoro di cronaca sarebbe completamente finito“.

Il cronista indagato per dare un segnale – Gli effetti peggiori del “bavaglio Cartabia”, però, si verificano soprattutto in provincia dove le pagine della cronaca locale si stanno gradualmente svuotando. “A Lecco abbiamo grosse difficoltà a conoscere il nome di una vittima in un incidente in montagna o nel lago, che da noi ci sono spesso”, racconta Daniele De Salvo de Il Giorno. “Il nuovo procuratore – spiega – interpreta il decreto in modo estremamente restrittivo e ha mandato circolari e avvisi, orali e scritti, ai sostituti e alla pg dicendo che non possono fornire informazioni, pena sanzioni disciplinari. I pm sono pochi, quasi tutti giovani, e quindi si adeguano. E quando per sbaglio esce qualcosa, scattano i richiami più o meno ufficiali, in stile caccia alle streghe“. Non stiamo parlando di notizie su stragi di Stato o misteri investigativi, ma solo di normali notizie di cronaca. De Salvo fa un esempio: “Ormai da un anno è in corso un’indagine su un aereo militare in addestramento precipitato sul Legnone, la montagna più alta del territorio, con il pilota morto. Noi non sappiamo ancora se è caduto per un malfunzionamento, per un errore del pilota o per un fattore esterno. In Procura sicuramente sanno qualcosa, perché hanno già disposto delle perizie, ma non ci dicono nulla. Eppure quegli aerei continuano a esercitarsi sopra Colico, un comune dell’alto lago di circa diecimila abitanti. Un cittadino che ha paura cosa deve pensare?”. Il cronista de Il Giorno ha vissuto in prima persona i rischi legati a un’interpretazione stringente del nuovo decreto: è finito indagato per pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale. Inchiesta aperta perché ha scritto dell’esito di un’autopsia: una donna trovata morta in un’auto nel lago aveva acqua nei polmoni, il che indicava un probabile suicidio e non un omicidio. “Un articolo del tutto innocuo, l’ultima cosa per cui avrei immaginato di poter essere indagato – commenta lui – La mia opinione è che sia stato fatto per dare un segnale: a noi giornalisti, ma soprattutto alle fonti”.

Pub sanzionati, ma nessuno sa quali – Ancora più innocui sono i pezzi sui controlli nei locali della movida a Palermo. “I vigili li sanzionano perché magari tengono gli escrementi di topo sul pan carrè o le bibite scadute, poi ti mandano il comunicato e non c’è scritto che locale è. Magari scrivono la via, ma essendo una via della movida di locali ce ne sono decine“, dice Sandra Figliuolo, cronista giudiziaria di Palermo Today. “In pratica ti trovi a dover scegliere – aggiunge – o perdi ore per capire qual è il locale o scrivi quello che ti mandano e poi hai tutti i titolari che ti chiamano per specificare che non si tratta del loro esercizio commerciale. Oppure non scrivi proprio, perché è una notizia monca“. Nel capoluogo siciliano, storicamente, blitz e arresti, spesso legati agli affari di Cosa nostra, sono all’ordine del giorno. “Tempo fa c’era stata una retata per contrabbando di sigarette, avevano arrestato una decina di persone e non volevano darci i nomi: li abbiamo recuperati solo il giorno dopo, per altre vie. Non era mai successo. Quindi per 24 ore non si sapeva chi fosse stato arrestato, nonostante la Cassazione abbia detto chiaramente che le ordinanze di custodia cautelare sono pubblicabili e divulgabili”, prosegue Figliuolo. Che racconta come ormai avere notizie dalle forze dell’ordine sia diventata un’impresa impossibile: “Magari sai che c’è stata una rapina, chiedi alla Questura perché ti manca un passaggio, ma puoi stare anche due giorni senza avere riscontro. Se invece fanno un arresto, allora mandano il comunicato. Anche le conferenze stampa non si fanno più: prima dell’arresto di Matteo Messina Denaro, a Palermo non ce n’era una con la presenza di un magistrato da almeno due o tre anni. E parliamo di una città in cui si fanno retate antimafia con una certa regolarità”. Il rischio, secondo la cronista di Palermo Today, è che “ci rassegneremo a fare un’informazione di basso livello, restando davanti al computer a pubblicare quello che arriva senza verificarlo. D’altra parte è già così: per uno che si ammazza per avere la notizia completa, ce ne sono altri dieci che si limitano a copiare e incollare il comunicato senza battere ciglio. Questo non stimola nemmeno le fonti a dare la notizia completa, perché sanno che anche se incompleta uscirà comunque”.

A Genova non dicono neanche i nomi degli avvocati – A volte a non parlare sono addirittura i rappresentanti delle istituzioni: a Sassuolo, nel novembre del 2021, un 38enne di nazionalità tunisina ha ucciso a coltellate la convivente, la suocera e due figli. Poi si è tolto la vita. Un giornalista di un’agenzia ha telefonato al Comune in provincia di Modena per avere un commento, ma si è sentito rispondere che la procura aveva vietato le dichiarazioni. A Genova, le cose vanno persino peggio. “Noi cronisti di nera e giudiziaria non siamo più in grado di garantire un’informazione puntuale e precisa“, ammette Tommaso Fregatti del Secolo XIX, presidente del Gruppo cronisti liguri. “Negli ultimi quattro casi di omicidio – racconta – non ci sono stati forniti né i nomi delle vittime né quelli degli indagati: siamo andati a trovarli sui citofoni o chiedendoli ai vicini di casa, e siamo usciti sui giornali senza che ci fossero stati confermati. Ci hanno tenuto nascosti tutti gli ultimi casi di violenza sessuale: le abbiamo sapute solo per vie traverse, e l’unico caso che ci è stato confermato successivamente è quello risolto con un arresto”. Ma non solo. “Anche i nomi delle vittime di incidenti stradali non escono più – dice il cronista del Secolo XIX – Le notizie degli arresti invece vengono date con giorni di ritardo, dopo l’udienza di convalida, cioè fino a 48 ore dopo i fatti storici. Ovviamente rispetto alla presunzione di innocenza non cambia nulla, perché si è sempre in fase d’indagine. Ma le forze dell’ordine sono convinte di sì. E ultimamente è successo persino che le forze dell’ordine non ci dicessero i nomi degli avvocati“.

I morti senza nome – I nomi delle persone coinvolte in indagini e inchieste sono scomparsi pure a Piacenza, dove nel dicembre del 2021, poco dopo l’entrata in vigore del decreto bavaglio, i carabinieri del comando provinciale hanno convocato i cronisti di nera. Un incontro per comunicare come da quel momento in poi non sarebbero state diffuse notizie di arresti prima delle udienze di convalida, cioè dopo 48 ore, che nei comunicati non sarebbero stati inclusi nomi, iniziali, età e date di nascita degli indagati. Nessun particolare neanche sugli incidenti. Una cosa che succede spesso anche in alcuni comuni dell’hinterland milanese: negli ultimi tempi, infatti, sono rimasti senza nome pure alcuni morti sul lavoro. “Pubblicare quantomeno il nome della vittima di un omicidio o di un incidente serve anche per darle dignità”, dice Giuzzi. “Nascondere il nome di una persona morta non ha nessun senso in termini di privacy o investigativi, ma le toglie dignità – continua il cronista del Corriere – È giusto che i morti abbiano un nome e un cognome: la gente ha il diritto di sapere chi è morto, anche per piangerlo. Un Paese dove i morti non hanno un nome è un Paese dove non c’è libertà d’informazione”. Il rischio è che a fare i nomi delle vittime si violi la presunzione d’innocenza degli assassini.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Successivo

Renato Curcio, il fondatore delle Br indagato a Torino per l’omicidio del carabiniere Giovanni D’Alfonso nel 1975: interrogato da pm e Ros

next