Le indagini sullo scontro a fuoco alla cascina Spiotta, nell’Alessandrino (dove morì anche la moglie di Curcio, Mara Cagol) sono state aperte dopo un esposto di Bruno D’Alfonso, figlio del militare ucciso. Il caso è stato riaperto per accertare l’identità di un secondo brigatista presente sul luogo, che riuscì a fuggire. Secondo quanto si è appreso, l'ex brigatista ha risposto a tutte le domande, negando ogni coinvolgimento nell’omicidio
L’81enne Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse, è indagato per concorso in omicidio dalla Procura di Torino in un fascicolo aperto sulla sparatoria alla cascina Spiotta d’Arzello, nell’Alessandrino, dove il 5 giugno del 1975 morirono la moglie di Curcio, la brigatista Margherita “Mara” Cagol, e un appuntato dei Carabinieri, Giovanni d’Alfonso. Le indagini, affidate al Ros, sono state riaperte dopo un esposto di Bruno D’Alfonso, figlio del militare ucciso. Il caso è stato riaperto per accertare l’identità di un secondo brigatista presente sul luogo, che riuscì a fuggire, mai identificato finora.
Curcio è stato interrogato per quattro ore a Roma in presenza di un avvocato difensore: in un primo momento era stato convocato come testimone assistito, ma a pochi giorni dall’appuntamento la sua posizione è cambiata. I magistrati lo accusano, in virtù del suo “ruolo apicale” nell’organizzazione, di aver deciso e organizzato il sequestro-lampo dell’industriale piemontese Vittorio Vallarino Gancia, rinchiuso alla cascina Spiotta e liberato dai carabinieri con un’irruzione da cui nacque lo scontro a fuoco. In particolare gli sono state contestate alcune espressioni contenute in un opuscolo propagandistico sequestrato nell’ottobre del 1975, intitolato “Lotta armata per il comunismo”. Si tratta di indicazioni “strategiche” rivolte ai militanti: “Se il nemico vi avvista, sganciatevi” e se questo non è possibile “rompete l’accerchiamento sparando”.
Secondo quanto si è appreso, l’indagato ha risposto a tutte le domande, negando ogni coinvolgimento nell’omicidio di D’Alfonso e ricordando che in quei mesi, a seguito della sua evasione dal carcere di Casale Monferrato il 18 febbraio 1975, viveva nascosto e aveva pochissimi contatti con l’esterno. Non solo, ma l’ex brigatista ha “rilanciato” chiedendo agli inquirenti di chiarire le circostanze della morte della moglie, facendo riferimento all’esito dell’autopsia, da cui risulta che Mara Cagol sia stata trafitta da un proiettile sotto l’ascella: elemento che dimostrera, secondo Curcio, come in quel momento si fosse già arresa e avesse le mani alzate. Gli inquirenti hanno replicato che non trascureranno alcun aspetto della vicenda.
Secondo il legale di Curcio, Vainer Burani, l’iscrizione è “un’anomalia assoluta”: “Naturalmente non è sbagliato cercare di chiarire cosa successe allora. Ma a distanza di 48 anni un’indagine è problematica di per sé, e questo mi sembra il modo peggiore di ricostruire una vicenda così lontana nel tempo. Attribuire a Curcio un ruolo diretto o indiretto su queste basi è una forzatura priva di logica giuridica”, commenta. Mentre il figlio di D’Alfonso, Bruno, raggiunto dall’AdnKronos si dichiara soddisfato: “Mi auguro che con questo primo tassello qualcuno inizi a dire davvero la verità, come sono andate le cose, perché non ha più senso dopo tutti questi anni tacere su questa triste storia che ha solo provocato dolore e nient’altro. Renato Curcio è sicurante una persona che sa benissimo chi è stato l’autore dell’omicidio di mio padre e non ne ha mai fatto il nome”, dice.