Mondo

Ucraina, perché l’Europa ininfluente? “Divisa e senza esercito, così è schiacciata dalla linea di Usa e Paesi antirussi. Un negoziato serio? Considera la rinuncia a territori”

Intervista all'analista Fabrizio Maronta, responsabile relazioni internazionali di Limes: "Prodi si duole? La sua generazione ha fatto entrare nell'Unione Paesi che vedono in Mosca una minaccia che gli Stati fondatori non vedono. Francia, Germania e Inghilterra per motivi diversi hanno osteggiato un esercito comune. E la supplenza degli Stati Uniti faceva comodo a tutti"

“Un’Europa schiacciata dall’allineamento tra Paesi russofobi e Stati Uniti è un problema drammatico oggi ma lo sarà anche in futuro perché la Russia era complementare ai nostri interessi. E’ una faglia storica che insieme alla mancanza di un esercito comune ha finito per portarci tutti al traino della linea strategica americana”. Parola di Fabrizio Maronta, responsabile consigliere scientifico e responsabile relazioni internazionali di Limes che a ilfattoquotidiano.it dice anche: “Difficile che gli ucraini si riprendano tutto, o che i russi arrivino a Kiev. Un negoziato serio dovrebbe considerare la rinuncia a territori. Sarebbe una vittoria di Pirro per Putin, tanto costosa da apparire ingiustificata alla stessa opinione pubblica russa. Una soluzione comunque preferibile a un’estensione del conflitto che diventa ingestibile“.

Romano Prodi lamenta l’irrilevanza dell’Europa, Biden che non va Bruxelles ma a Varsavia, dove prevale la linea della sconfitta di Putin.
A me dispiace si rammarichi ma dovrebbe farlo in parte con se stesso. L’Europa cui ha tanto contribuito ha alimentato l’idea e la retorica della “potenza internazionale del diritto”, scordandosi – probabilmente – che una potenza giuridica senza un corrispettivo deterrente militare non funziona. Non è un discorso da guerrafondai ma fondato sulla realtà storica dei fatti. La generazione di Prodi è cresciuta nel tempo della “pax americana”, che noi chiamiamo Guerra Fredda, ma in realtà è stata una lunga pace per noi europei dettata dai rapporti di forza che venivano fuori dalla Seconda guerra mondiale.

E ora come sono i rapporti di forza?
Sono gli stessi. L’Europa non solo non ha unità di intenti ma neppure uno strumento militare con funzione deterrente, creato con lo scopo di non usarlo. Per questo non ha voce in capitolo in un momento storico in cui altre potenze lo utilizzano anche come arma di politica estera. Sicuramente la Russia, che in realtà è una potenza medio piccola sebbene stia facendo in questo momento disastri in Europa. Ma in prospettiva anche la Cina, che potrebbe essere una potenza ben più grande. Sono loro a mettere in questione l’ordine internazionale, cioè l’assetto internazionale “americanocentrico” uscito dalle vittorie della Seconda guerra mondiale e e della Guerra Fredda. Da qui il nostro andare a rimorchio degli Usa.

Chi divide l’Europa?
Putin ha provato, in maniera anche piuttosto smaccata, a dividerla dagli Stati Uniti attraverso l’arma del ricatto energetico. Non c’è riuscito, in parte, perché gli Stati europei si sono attrezzati diversamente. Gli Stati Uniti con la loro esportazione di GNL hanno tamponato l’ammanco di gas russo. Hanno usato fattori di potenza che potremmo definire “hard power”.

Sta dicendo che l’Europa vuole la pace ma non può chiederla?
Penso che noi europei, estranei all’esperienza postbellica del dominio sovietico, ci siamo mentalmente affrancati dall’idea stessa che la competizione internazionale passi anche per mezzi non pacifici. Ma in realtà, e purtroppo, lo stiamo riscoprendo adesso in maniera piuttosto traumatica: il softpower da solo non va molto lontano, se si vuole una pace duratura e noi non l’abbiamo.

Chi ha remato contro un sistema di difesa europeo?
Francia e Germania. Decida lei in quale ordine. La Francia ha sempre avuto il complesso da “impero decaduto” che non si rassegna. Anche Macron ha un retropensiero gollista: come ogni presidente francese dice “Europa” e pensa “Francia”.

Eppure di “esercito europeo” si parla da metà del secolo scorso
I discorsi sull’autonomia strategica dell’Europa e la difesa comune sono iniziati negli anni Sessanta. Non hanno portato a nulla perché erano progetti alternativi, se non antagonistici, alla Nato. Gli Stati Uniti hanno fatto pesare tutto il “dividendo della pace”, impedendo che l’Europa integrasse un proprio esercito nel dispositivo Nato. In assenza, i progetti europei si sono rivelati velleitari come la guerra in Libia.

Anche la Germania si è messa di traverso?
Ha espunto l’idea di “potenza normale” e lo vediamo adesso con i travagli di Scholz. I “fattori di potenza” tra l’altro le sarebbero anche connaturati, in quanto fulcro naturale dell’eurozona e dell’Unione europea, specialmente da quando se ne sono andati gli inglesi. Se la Germania postbellica ha delle attenuanti non così l’Inghilterra, che ha rifuggito l’idea di un progetto europeo perché guarda alla sua relazione speciale con gli Stati Uniti. Lo vediamo anche adesso: Londra fa leva sul suo sostegno all’Ucraina per rinsaldare quella relazione in una fase di Brexit difficoltosa, per certi aspetti forse addirittura fallimentare.

E arriviamo all’Italia.
Noi abbiamo concorso a questa “afasia strategica” e probabilmente per la stessa ragione della Germania. La guerra l’abbiamo persa e conseguentemente non abbiamo mai articolato una proposta, forse un pochino con Andreatta. Ma non abbiamo mai avuto il peso specifico di francesi e tedeschi per farci fautori di un rapporto un po’ più sano con gli Stati Uniti. Vogliamo dire la verità? L’idea della difesa europea affidata agli Stati Uniti faceva comodo a molti: le risorse che abbiamo avuto a disposizione nel primo periodo postbellico e durante la Guerra Fredda per costruire i nostri “stati sociali” di cui andiamo tanto fieri sono state “liberate” dal fatto che la garanzia militare era in capo agli Stati Uniti. E ha fatto comodo un po’ a tutti.

La ricaduta oggi?
La divisione. In questo momento c’è una parte d’Europa fortemente “antirussa”, tutto il fianco est si sposa con la linea americana. Per questo dico che Prodi si dispiace quando dovrebbe rammaricarsi con se stesso: ci siamo portati dentro l’Unione europea tutta una serie di Paesi che entravano per tutelare la sovranità riconquistata dopo oltre mezzo secolo di dominio russo-sovietico, mentre l’altra parte d’Europa, quella di qua dalla cortina, ha un’idea diversa dei rapporti con la Russia. E’ una faglia storica che presenta il conto, uno sfasamento storico tra le due parti. La Russia in un modo o nell’altro continuerà ad esistere.

Quanto potrà reggere l’opinione pubblica in Europa?
Secondo la pressione di due elementi. Quello socioeconomico e quello geografico. Paesi come la Polonia e altri stanno giocando una partita in cui vedono l’opportunità di assestare un colpo durissimo alla Russia, anche in modo propagandistico, anche esagerando la potenziale minaccia che la Russia può porre al resto d’Europa o al territorio della Nato. Parlo a ragion veduta diciamo. In quei Paesi grande parte dell’opinione pubblica e delle elite, per storia e posizione geografica, ritengono effettivamente e oggettivamente Putin un pericolo. Lasciarlo fare e dargliela vinta, anche solo in parte, per loro costituisce un precedente che porterà la Russia a chiedere di più.

E noi, intesi come Italia, Germania etc?
La percezione è diversa. Per le opinioni pubbliche più occidentali quella minaccia non c’è: pur condannando moralmente la guerra, non sentono in fondo la Russia come tale. Sono convinte, e a ragione direi io, che dopodomani non ci ritroveremo l’Armata Russa a Roma, a Parigi o a Berlino, come sostiene un baltico o un rumeno. Salvo che la Russia non faccia cose incredibili, tipo buttare ordigni nucleari, le opinioni pubbliche dell’Europa occidentale tenderanno a stancarsi.

E sul fronte dell’economia?
Ecco, questa è l’altra grande variabile. Adesso ha preso piede la retorica che “Putin ha perso la guerra del gas”, ma io ci andrei cauto: ora e forse per il prossimo inverno abbiamo schivato la pallottola della penuria energetica, ma non ci scordiamo che stiamo pagando il gas in maniera non inferiore rispetto a prima della guerra. Non è che abbiamo cambiato il paradigma energetico, abbiamo semplicemente sostituito quello russo con altro. Con quali effetti di lungo periodo per l’inflazione? E sul potere d’acquisto? Idem per la partita delle rilocalizzazione della produzione delle imprese americane fuori dalla Cina in settori strategici. Sono domande che vanno al cuore dell’Europa, a partire dalla Germania.

Berlino è già in difficoltà.
E lo sarà sempre di più. La Germania aveva una politica economica fondata sull’export grazie a due pilastri: il gas russo a basso costo e la possibilità di esportare ovunque, compresa la Cina. Adesso il gas russo è andato e l’export verso la Cina è diventato più difficile per via della guerra commerciale, quindi: quanto soffrirà la Germania e si rilesso le altre economie? E poi, per quanto tempo i Paesi con più presenza di rifugiati ucraini dovranno farsi carico di questi rifugiati e quanto costerà? Sono variabili del sostegno a Kiev che concorrono a determinare l’orientamento sulla guerra.

E gli Usa in tutto questo?
Gli Stati Uniti sono lontani geograficamente dal conflitto ed erano molto meno esposti rispetto alla Russia anche dal punto di vista energetico. Con la rivoluzione dello shale gas, cioè la fratturazione idraulica gli idrocarburi non convenzionali, gli Stati Uniti sono tornati a essere esportatori netti di energia, quindi in questo momento anche tutti i piani sussidiari a buon mercato e di infrastrutturazione di Biden funzionano. Ma non cambia il fatto che l’Europa sia vicina alla Russia. E neppure il fatto che Europa e Russia sono confinanti e complementari. La prima relativamente piccola, povera di materie ma molto industrializzata ha come orizzonte d’elezione la seconda, enorme, ricca di materie prime e con un’economia manifatturiera risibile. Non a caso eravamo uniti dalla relazione energetica.

Qualcuno potrebbe obiettarle che baratta la pace per convenienza?
Dico solo che se alcuni Paesi chiave, specialmente la Germania e in barba a qualsiasi logica del buon investitore che diversifica il portafogli, si sono buttati anima e corpo solo e unicamente su quella relazione non è perché fosse un’oscenità, aveva anzi una sua logica stringente. E gli Stati Uniti lo sanno bene: sono maestri in questo.

In che senso?
Va bene che c’è la guerra, ma ci sono vincoli che non si possono scordare di punto in bianco. Quando Henry Ford ha fatto la motorizzazione di massa negli Stati Uniti il petrolio lo ha preso in Texas. Una delle ragioni per cui è avvenuta con il motore a scoppio a combustione interna, e non con il motore elettrico che pure al tempo esisteva, è che il Texas era pieno di petrolio. Non voglio dire che il Texas sta a Detroit, la capitale dell’auto, come la Russia sta a Stoccarda. Ma insomma siamo là, quindi storicamente c’è questa ragione di fondo.

E questo agisce sulla nostra percezione del conflitto?
Paesi come l’Italia e la Germania, le cui leadership ma anche opinioni pubbliche sembrano avere un’inaccettabile “intelligenza con il nemico”, sanno che in qualche modo con la Russia bisogna ancora convivere. Non per ignavia ma perché la Russia è una presenza inevitabile. Non deve essere una scusa per mollare l’Ucraina, ma un viatico per una pace sostenibile e una fine negoziata della guerra. Un’idea che non comporti necessariamente la sconfitta totale russa o ucraina, perché il problema è che questa è la logica attuale: la retorica che gli ucraini devono recuperare tutto, altrimenti i russi si prendono tutto. Verosimilmente questa guerra non finirà così.

E pensa come finirà?
Come non so, sul quando: non adesso. Mi sembra difficile che gli ucraini, ammesso riescano, si riprendano tutto. Altrettanto che i russi arrivino a Kiev o anche solo a Odessa. Il negoziato deve partire a principi di realtà. Non vuol dire consentire a Putin di fare quello che vuole. Ma che anche si dovesse accettare la rinuncia a territori maggiori rispetto al 24 febbraio 2022 per averli Putin e la Russia avranno sostenuto prezzi altissimi, così spropositati in termini di vite umane da apparire alla stessa opinione pubblica russa del tutto ingiustificati. Soluzione comunque preferibile a un’estensione del conflitto che diventa ingestibile.