L’indipendenza ha fatto bene ai boschi ucraini: dal 1988 la superficie coperta da alberi è cresciuta di quasi un milione di ettari, in gran parte piante ad alto fusto piantumate dal governo. Questo è vero soprattutto nella parte occidentale: a Est la steppa è ancora in gran parte brulla, ma non mancano poche foreste di pini dal tronco altissimo immessi nel terreno negli ultimi trent’anni che coprono parti di territorio non urbano a macchia di leopardo. È in queste aree, una continua alternanza di collinette brulle, fitte foreste e avvallamenti percorsi da fiumiciattoli per il momento congelati, all’incrocio tra gli oblast di Kharkiv, Luhansk e Donetsk, che la Russia lancia coscritti per lo più non addestrati contro le posizioni difensive ucraine, soprattutto trincee, edifici rurali, infrastrutture ferroviarie e spesso anche postazioni di fortuna difendibili dalla conformazione del territorio.

Si tratta soprattutto di plotoni di 10-20 giovani alla volta, freschi di mobilitazione, che, una volta “falciati” dalle mitragliatrici, vengono rincalzati dalle truppe Wagner, più professionali e addestrate. Le foreste costituiscono la difesa naturale più inaspettata ma non per questo meno efficace: rendono invisibili i cecchini alla ricerca di ufficiali da uccidere, forniscono copertura e possibilità di muoversi in sicurezza ai mortai ucraini, consentono ai soldati russi, meno disciplinati, di scivolare in massa attorno a obiettivi sensibili per poi spuntare da più parti. Soprattutto, in una guerra di logoramento in cui la superficie del territorio conta tanto, le aree boschive sono diventate protagoniste di scontri epici che ricordano quelli della Prima Guerra Mondiale, come la famigerata offensiva Mosa-Argonne in cui, durante le prime ore di scontro, gli americani da soli spararono più munizioni che in quattro anni di guerra di secessione, pari a circa 3,5 miliardi di dollari attuali. La Foresta dell’Argonne divenne un “inferno verde” per i soldati: piccole pattuglie tedesche, trappole minate e filo spinato bloccarono e distrussero gran parte della 77esima divisione di fanteria americana che si trovò a un certo punto anche sotto il fuoco amico. Celebre è il messaggio inviato con un piccione viaggiatore con cui chiesero “per l’amor del cielo” di smetterla di sparargli addosso. La storia nelle foreste tra Kreminna e Bakhmut è simile: l’improvvisa scarsità di mortai ha imposto agli ucraini di fare ampio uso di mitragliatrici, le quali però sono efficaci solo quando il nemico è abbastanza lontano. Se si lancia in avanti, un soldato russo troppo vicino, come ben sanno da quelle parti, può essere atterrato solo colpendolo sulla testa con l’arma. Combattendo tra file interminabili di pini e piccoli cespugli, è facile trovarsi all’improvviso il nemico così vicino da riconoscere il colore degli occhi o non troppo lontano da potergli sparare con la certezza di andare a segno senza essere scorto.

Proprio le mine, come nella Foresta dell’Argonne, sono tornate ad essere le grandi protagoniste: gli ucraini hanno imparato a piazzarle in modo rapido e efficace per impedire ai russi di stargli appresso durante ripiegamenti tattici, in modo da evitare che improvvise accelerate dei russi gettino il caos durante gli spostamenti. Insomma, se il tuo nemico deve perdere tempo prezioso (oltre che uomini) per sminare il terreno durante un’avanzata, hai tutto il tempo di riposizionarti in luoghi fortificati e aprire a tua volta il fuoco, mentre l’attaccante è scoperto. Questo puoi farlo, però, solo attorno e nelle aree boschive: troppo grandi, fitte e umide per essere “spianate” come i centri abitati. Così sotto i pini puoi trovare riparo dagli onnipresenti droni, che a fatica attraversano le chiome degli alberi sempreverdi nei punti più fitti.

Non è la prima volta che le truppe del Cremlino subiscono le conseguenze della presenza di aree boschive nei terreni da loro attraversati: successe anche a marzo, durante la calata dalla Bielorussia verso Kiev, poi interrotta tra Hostomel e Bucha, quando soldati e volontari ucraini, armati di Javelin e di droni suicidi, uscivano dalle foreste per attacchi micidiali e poi vi trovavano rifugio. Ma anche nell’avanzata da Sumy verso la capitale ucraina, un anno fa, le foreste attorno a Brovary costrinsero i russi a compiere manovre lente e prevedibili, con la logistica sempre in crisi. Insomma, i russi si trovarono nelle stesse situazioni di pericolo, circondati da boschi pieni di difensori agguerriti, come successe ai loro antenati nelle guerre del Caucaso del XIX secolo: non a caso, una volta prevalsi sui ceceni e le altre popolazioni islamiche, fu decisa una deforestazione del territorio.

L’esercito australiano, uno dei pochi a preparare il jungle warfare, sostiene che la guerra nella foresta è sempre condotta come un combattimento ravvicinato: vince chi ha la capacità di prendere rapidamente l’iniziativa e infliggere colpi allo stesso tempo controllati e travolgenti. Pertanto, il tempo speso a preparare i soldati prima dell’immersione nella foresta è fondamentale, anche se questo genere di combattimento richiede complesse esercitazioni progettate per massimizzare la letalità di un’organizzazione migliorando al contempo la sopravvivenza. Manco a dirlo: in questa guerra nessuno si era preparato a battaglie combattute tra migliaia di pini.

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