“Neanche questa volta ci hanno visto arrivare”, ha esordito così la nuova segretaria del Pd Elly Schlein nel suo primo discorso dopo le primarie. La scelta di queste parole non è casuale, perché non rispecchiano banalmente la sorpresa dei risultati della corsa alla segreteria del partito, ma riprendono le pagine della storica Lisa Levenstein che, nel libro They didn’t see us coming, traccia il percorso del femminismo intersezionale degli anni 90, la cosiddetta terza ondata. Una citazione di questo tipo corrisponde a una presa di posizione chiara che Schlein non ha mai nascosto: siamo agli opposti rispetto alla linea politica tracciata dalla maggioranza al governo di Giorgia Meloni e, onestamente, siamo anche ben lontani dal luogo politico in cui il Pd si è collocato negli ultimi anni, ad eccezione di qualche nome che ha creduto nel famoso “cambiamento dall’interno”. E invece ha vinto l’outsider, arrivata qualche passo indietro alle elezioni per la guida della Regione Emilia-Romagna… che evidentemente le sono serviti a prendere la rincorsa.
Per la prima volta c’è stato un ribaltone anche rispetto alle preferenze espresse dagli apparati interni del Pd; nei circoli, infatti, la vittoria di Bonaccini era attesa e desiderata, ma il popolo democratico aveva bisogno di un taglio netto. Forse è questo il vero “effetto Meloni”.
Sallusti, durante la diretta di ieri a Non è l’Arena su La7, ha descritto così l’influenza che ha avuto l’elezione del presidente Meloni sulla volontà di schierare un’altra donna a capo del partito d’opposizione, dimostrandone il modello vincente. A mio parere non è una questione così superficiale – una donna contro l’altra – bensì contenutistica. Il Pd, per ripartire, ha bisogno di un’opposizione che stia davvero all’opposto. Non di una persona che pensi che “Meloni è molto capace” (come disse Bonaccini), ma di una guida che abbia chiaro che non si può essere capaci di guidare un Paese nel 2023 se si nega la crisi climatica, il salario minimo e l’azione salvavita delle ong in mare.
Da domani, però, si andrà oltre le prese di posizione e Schlein dovrà essere in grado di guidare un partito al suo interno frammentato, missione non facile. Qualcuno ha già fatto un passo indietro, come l’ex ministro Fioroni, e accogliamo questo “effetto collaterale” come una buona notizia: se la vecchia guardia non riconosce più il vecchio partito, forse la rotta sta cambiando. Altri torneranno a bussare alle porte di Renzi e Calenda? Bene, finalmente avranno capito la differenza tra farsi chiamare “riformisti” ed essere di sinistra.
“Da sola non riuscirà mai a tenere testa alla destra”, prospettano alcune voci nel dibattito politico, però non mi pare che prima di lei la strategia di spingersi sempre più al centro abbia funzionato. Dal Jobs Act agli accordi con la Libia, facciamo quotidianamente i conti con i regalini del Pd moderato ed è a causa di questi ultimi che il Movimento 5 Stelle ha mangiato anche i voti del centro-sinistra.
Attenzione a non trasformare Schlein in uno specchietto per le allodole! Per riportare le persone di sinistra a votare il Partito Democratico non basta eleggere la giusta personalità, anche se capace e preparata. Bisognerà lavorare sui programmi, sulle idee, parlando anche dei temi scomodi e rivoluzionari, senza paura. Perciò la facciano finita con la strategia del passo indietro. Gli outsider ora sono inside. O la va, o la spacca. Un’unica certezza, vi prego, chiamatela “segretariA”.