Extraprofitti e aziende agroalimentari: un accostamento inconsueto nella cronaca quotidiana che meriterebbe più attenzione. Soprattutto in uno scenario globale in cui, a due anni dall’inizio della pandemia di Covid-19 e a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, le persone povere, a tutte le latitudini, sono sempre più povere e l’insicurezza alimentare cresce, così come i prezzi dei generi alimentari essenziali.
E sì, perché in quanto a dinamiche speculative il settore food non ha nulla da invidiare ad altri più noti, come l’industria energetica o farmaceutica. Con il rischio di affamare il pianeta, anziché nutrirlo in maniera sana ed equa.
Una nuova inchiesta di Greenpeace svela infatti che tra 2021 e 2022 le più grandi 20 multinazionali dell’agroalimentare – leader nei settori dei cereali, dei fertilizzanti, della carne e lattiero-caseario – hanno distribuito oltre 53 miliardi di dividendi: più di quanto servirebbe, secondo stime dell’Onu, per salvare 230 milioni di persone dalla povertà estrema. Ma com’è stato possibile? Pochi controlli, poche regole, poche responsabilità: il comparto agroalimentare non è immune dai grandi privilegi di cui godono tutte le multinazionali.
Esempio lampante è il commercio dei cereali, controllato per oltre il 70% da appena quattro aziende – Archer-Daniels Midland, Bunge, Cargill e Dreyfus – note con l’acronimo ABCD. Big corporation non obbligate a divulgare informazioni cruciali per gli equilibri del mercato globale, come l’entità delle loro scorte. Un fattore che, all’indomani della guerra in Ucraina, ha favorito la speculazione e fatto schizzare i prezzi del grano, affamando intere popolazioni, soprattutto in nord Africa e Medio Oriente. Per comprenderne gli impatti, basti pensare che per ogni punto percentuale in più dei prezzi alimentari, 10 milioni di persone cadono nella povertà estrema.
L’agroalimentare italiano potrebbe sembrare distante anni luce da questa galassia di multinazionali, ma a causa del meccanismo di scatole cinesi che la regola, si scopre invece ben integrato e non di rado beneficiario di politiche di sostegno al made in Italy finanziate anche con fondi pubblici.
Al primo posto della classifica pubblicata da Greenpeace per profitti nel settore carne – realizzati tra agosto 2021 e agosto 2022 – troviamo il gruppo brasiliano JBS che in Italia controlla Rigamonti, marchio noto per la bresaola della Valtellina (fatta però in gran parte con carne di zebù brasiliano), e che di recente ha acquisito King’s, primo operatore italiano nella produzione di prosciutto San Daniele Dop, nonché player di spicco in quella di Prosciutto di Parma Dop, riconosciuto “Marchio Storico d’Interesse Nazionale”.
In testa alle big dei latticini, si posiziona invece la francese Lactalis che controlla Galbani e Parmalat, firmataria di una richiesta di aiuti al nostro governo per contrastare l’aumento dei prezzi al consumo in fase di crisi, sebbene entrambi i marchi italiani siano risultati sul podio del settore per maggiori ricavi netti nel 2021, con poco meno di un miliardo di euro a testa.
Ma le multinazionali del food entrano nel made in Italy anche in modo indiretto, con le tonnellate di mais e frumento destinate alla mangimistica, o quelle di soia che viaggiano dal Sud America fino ai nostri allevamenti intensivi: porto d’ingresso principale Ravenna, sede di Bunge e dei suoi giganteschi silos dove sono stivati cereali e semi oleosi.
Un modello che finisce per tagliare fuori i piccoli produttori locali, i quali dovrebbero essere protagonisti di quella “sovranità alimentare” entrata anche nella denominazione del ministero dell’Agricoltura e che, nel suo significato originale, dovrebbe limitare il potere delle corporation, promuovendo maggiore trasparenza e regole più stringenti. A cominciare da una “extra” tassazione sugli extraprofitti realizzati grazie a inattesi cambiamenti del mercato, per ridurre la forbice sempre più ampia tra grandi ricchi e nuovi poveri.
Misure tanto più urgenti di fronte a una crisi climatica che mette a rischio le produzioni agricole di tutto il mondo. Ora più che mai è prioritario un sistema basato su tecniche agroecologiche che metta al centro la qualità del lavoro e il reddito dei piccoli produttori, garantendo cibo sano e di qualità, senza distruggere l’ambiente.