Il giorno dell'arringa del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo: è agli sgoccioli un procedimento in cui, al di là delle responsabilità dei boss di Cosa Nostra e della mafia calabrese, sostenuta dalla Dda in relazione al duplice omicidio, è emerso come gli attentati ai carabinieri (tre nel giro di poche settimane, ndr) in provincia di Reggio sono stati parte integrante di un piano unico delle due organizzazione criminali
Invertendo l’ordine del suo intervento, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo lo aveva premesso il 23 febbraio quando è iniziata la requisitoria del processo “’Ndrangheta stragista”: “Filippone Rocco Santo e Graviano Giuseppe sono colpevoli di tutti i reati a loro ascritti, oltre ogni ragionevole dubbio”. Nell’udienza di oggi, il magistrato ha chiuso il cerchio e ha formalizzato la richiesta alla Corte d’Assise d’Appello, presieduta dal giudice Bruno Muscolo, auspicando la conferma della sentenza di primo grado e quindi l’ergastolo per il boss siciliano di Brancaccio e per l’esponente della cosca Piromalli, accusati di essere i mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi il 18 gennaio 1994. Un agguato che, secondo la Dda di Reggio Calabria, rientra a pieno titolo nelle cosiddette “stragi continentali”, consumate nella prima metà degli anni Novanta da Cosa nostra e ‘Ndrangheta. “Sono straordinariamente contento e convinto – ha detto il procuratore aggiunto Lombardo – di aver fatto tutto quello che era umanamente possibile per ricostruire una vicenda complessa. Graviano e Filippone sono colpevoli di tutti i reati loro ascritti e la sentenza dell’ergastolo va integralmente confermata”.
È agli sgoccioli uno dei processi più importanti che si stanno celebrando in riva allo Stretto. Un processo in cui, al di là delle responsabilità di Graviano e Filippone sostenuta dalla Dda in relazione al duplice omicidio, è emerso come gli attentati ai carabinieri (tre nel giro di poche settimane, ndr) in provincia di Reggio Calabria sono stati parte integrante di “una strategia unitaria per destabilizzare lo Stato”. Il copyright è dei giudici di primo grado la cui sentenza oggi è al vaglio dei colleghi di Piazza Castello chiamati, dopo due anni di istruttoria dibattimentale, a decidere di nuovo su Graviano e Filippone. Se quest’ultimo, boss della cosca Piromalli ed esponente apicale del mandamento tirrenico della ‘ndrangheta, è stato “indispensabile in un determinato momento storico, il soggetto giusto al momento giusto”, Graviano è stato qualcosa di più: “Uno dei protagonisti principali di quella stagione” insanguinata. Il procuratore aggiunto Lombardo lo ha ripetuto più volte: “Giuseppe Graviano non è soltanto il promotore e organizzatore di una determinata strategia. Ma è anche colui il quale in un determinato momento storico interloquisce con un determinato interlocutore politico”.
“Ecco il grande peso di Giuseppe Graviano” che, oltre a trattare “con la componente politica”, curava i contatti “con determinati ambienti che gli hanno messo il Paese nelle mani”. La frase è del pentito Gaspare Spatuzza che ai pm ha raccontato dell’incontro avuto con Graviano al Bar Doney di via Veneto a Roma, dove il boss di Brancaccio gli avrebbe detto: “Abbiamo il Paese nelle mani – è la ricostruzione fatta dal pg delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia – perché gli accordi che dovevo concludere li ho conclusi però dobbiamo accelerare la strage dell’Olimpico perché i calabresi si sono mossi”. Per dirla alla Spatuzza, il boss di Brancaccio aveva mostrato “la sua felicità per il fatto di essere riuscito ad ottenere ‘tutto quello che cercava’, con ciò facendo riferimento a Berlusconi ‘quello del Canale 5’ e al ‘compaesano’ Dell’Utri”.
Per comprendere il senso è sempre utile rileggere la sentenza di primo grado. Secondo la Corte d’Assise, infatti, tanto gli attentati dei carabinieri in Calabria quanto il progetto della strage all’Olimpico, dove sarebbero dovuti morire 55 militari dell’Arma, rientravano in una “comune strategia eversivo-terrorista” e “hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della ‘contaminazione’ o ‘evoluzione’ originata dall’inserimento della mafia siciliana e calabrese all’interno della massoneria”. Tendenze eversive in cui nulla è stato lasciato al caso. Basta pensare alla sigla “Falange Armata” utilizzata dalle mafie su indicazione di pezzi deviati delle istituzioni per rivendicare le stragi.
Il tutto si è incastrato “in un momento in cui le organizzazioni – hanno scritto i magistrati – erano alla ricerca di nuovi e più affidabili referenti politici, disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neopartito Forza Italia di Silvio Berlusconi in cui erano confluiti i movimenti separatisti nati in quegli anni come risposta alle spinte autonomistiche in Sicilia e Calabria”. Per i giudici di primo grado, le “responsabilità degli imputati (Graviano e Filippone, ndr) costituiscono soltanto un primo approdo”: dietro agli attentati è “assai probabile” che oltre alla ‘Ndrangheta e a Cosa nostra vi fossero “dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre”. Un concetto ribadito durante la requisitoria d’appello appena conclusa dal procuratore aggiunto Lombardo che ha intrecciato le risultanze processuali di primo grado con quelle riaffiorate in seguito alla nuova istruttoria dibattimentale in cui sono confluite diverse informative redatte dalla Dia e nuove dichiarazioni di altri pentiti.
La caccia ai “mandanti politici” è sempre attuale. Non potrebbe essere altrimenti visto che “la stagione delle stragi ha degli obiettivi anche di natura politica”. Le riflessioni del procuratore aggiunto Lombardo non lasciano adito a dubbi: “Gli interlocutori politici – dice – sono stati individuati, indipendentemente dal fatto che possano esserci responsabilità personali ancora da accertare. Non era possibile ristrutturare una serie di assetti di potere senza andare a individuare nuovi interlocutori politici”. Nel corso della requisitoria, si è parlato anche di un episodio avvenuto a Reggio Calabria il 6 ottobre 2004 quando, nei bagni di Palazzo San Giorgi sede del Comune, sono stati trovati alcuni panetti di tritolo senza innesco. Un finto attentato sul quale, oggi, per la Dda è chiara la mano del Sismi. “Chi rinviene l’esplosivo di Palazzo San Giorgio è il questore Vincenzo Speranza (oggi defunto) – ha affermato nell’udienza di ieri il pg – Attraverso una serie di passaggi, che coinvolgono alcuni appartenenti al servizio di sicurezza militare, e in particolare Marco Mancini, possiamo affermare che chi cercava l’esplosivo sapeva perfettamente dove era stato collocato. Quando si entrò a Palazzo San Giorgio per andare a verificare se le indicazioni provenienti dal Sismi fossero reali, in realtà chi cercava le conferme le aveva già”.
Una vicenda, quella del tritolo a Palazzo San Giorgio, che va letta insieme al contesto politico dell’epoca a Reggio Calabria. In quel periodo, infatti, la componente riservata della ‘ndrangheta reggina avrebbe provocato la crisi al Comune nel 2004 guidato da Giuseppe Scopelliti. “Gli stava facendo la crisi chi lo ha portato là – ha affermato il procuratore Lombardo – Scopelliti, una volta eletto sindaco, si convince che si possa discostare da determinate logiche e invece gli viene ricordato che non è così. Quando si rende conto di questo, dice: ‘Ho capito non mi posso disallineare. E ora come recupero?’. ‘Ci pensiamo noi’ gli è stato risposto. E arriva il tritolo che non fa mai male se non può esplodere. Scopelliti recupera e diventa il terzo sindaco più amato d’Italia per molto tempo. Merito dell’esplosivo”.
Agli atti del processo, c’è un’informativa della Dia che, a distanza di anni, svela una relazione di servizio trovata in questura e “mai portata all’attenzione dell’autorità giudiziaria”. In quella nota si parlava di una “fonte fiduciaria” che indicava come organizzatore del finto attentato tale Giuseppe Schirinzi, noto estremista della destra reggina che – ha ricordato Lombardo – “nel 1969 è stato protagonista di un attentato dinamitardo contro la questura di Reggio Calabria verificatosi dopo un comizio di Valerio Julio Borghese in città. Schirinzi è stato notato a Roma, nei pressi dell’Altare della Patria, teatro dell’esplosione di un ordigno a breve distanza temporale dall’attentato della Banca dell’Agricoltura di Milano meglio nota come strage di Piazza Fontana”.
È lo stesso Schirinzi che negli anni successivi al finto attentato a Palazzo San Giorgio è stato il promotore della manifestazione “La Regata di Ulisse”. “Abbiamo scoperto – ha concluso Lombardo – che per organizzare quella regata il sindaco Scopelliti e la giunta comunale da lui presieduta hanno riconosciuto un finanziamento pari a 700mila euro. La Dia ha eseguito degli accertamenti patrimoniali e ha trovato conferma che effettivamente i 700mila euro sono arrivati a Schirinzi il quale, invece di destinarli alla ‘Regata di Ulisse’, li ha prelevati tutti per destinarli non sappiamo a che cosa. Che cosa è stato pagato a Schirinzi con quei 700mila euro? Magari il fatto di aver collocato l’esplosivo e aver consentito al sindaco Scopelliti di acquisire visibilità nazionale e, quindi, la credibilità che aveva perso?”. Una domanda che volutamente è rimasta inevasa e sulla quale questo processo non fornirà una risposta. Intanto, dopo la requisitoria del procuratore aggiunto, ci sono stati gli interventi dei legali di parte civile. Si torna in aula domani quando è prevista l’arringa degli avvocati Guido Contestabile e Salvatore Staiano, difensori di Rocco Santo Filippone. L’avvocato Giuseppe Aloisio, difensore di Graviano, interverrà invece giovedì.