di Kevin De Sabbata*

Appena letto della sorprendente vittoria di Elly Schlein alle primarie del Partito Democratico ho avuto un senso di déjà vu. Inghilterra, 12 settembre 2015: Jeremy Corbyn vinceva la leadership election (ovvero le primarie) del Partito Laburista. Anche in questo caso, l’elezione fu il risultato di una consultazione caratterizzata da un’alta affluenza e da una partecipazione senza precedenti dei giovani che, lasciando da parte l’ormai caratteristico disinteresse e scetticismo verso la politica, si erano fatti entusiasmare da un candidato finalmente e autenticamente ‘di sinistra’, che prometteva di investire sull’economia verde e sulla sanità pubblica, di abolire le (altissime) tasse universitarie, di ridurre la povertà e il precariato migliorando i salari e le condizioni di lavoro.

All’epoca abitavo a Leeds, grande centro ex-industriale nel nord dell’Inghilterra e storica ‘roccaforte rossa’. Ricordo l’entusiasmo soprattutto fra gli studenti. Ricordo però anche le due conseguenti sconfitte elettorali del 2017 e del 2019. La seconda fu una vera batosta: uno dei peggiori risultati elettorali nella storia del Partito Laburista contro un candidato tutt’altro che autorevole come Boris Johnson. Per questo non riesco a essere ottimista sulle sorti future del Pd. Come leader, Jeremy Corbyn era riuscito a galvanizzare i fan di un partito in crisi di identità, dopo che la svolta centrista di Blair aveva garantito al Labour il più lungo periodo di continua permanenza al potere della sua storia, ma a prezzo di perdere il polso del proprio elettorato tradizionale, anche a causa dell’improvvida scelta di seguire Bush nella guerra in Iraq e della necessità di distribuire miliardi alle banche per far fronte alla crisi finanziaria del 2008.

Alla fine, però, Corbyn si è rilevato incapace e piuttosto poco interessato a proporre un piano concreto e realizzabile di governo e soprattutto a elaborare una strategia che convincesse il numero di elettori necessario per andare al governo. Quando lui e i suoi sostenitori andavano in giro a fare campagna elettorale, che in Inghilterra si fa ancora molto porta a porta, facevano fatica a farsi aprire dai propri elettori storici, figuriamoci da quelli che generalmente votavano per la parte avversaria. Così, quell’esperienza confermò nuovamente e drammaticamente uno dei teoremi fondamentali della politica: ben vengano i grandi ideali socialisti o progressisti, ma poi devi trovare i voti per realizzarli e questo richiede, volente o nolente, di muoversi verso il centro.

Spero di sbagliarmi, ma la situazione attuale del Pd ricorda molto quella del Labour di Corbyn del 2015: un partito in crisi d’identità, la fuga a sinistra come risposta alla difficoltà di elaborare proposte e, soprattutto, un(a) leader con grandi ideali che sembra però faticare a tradurli in programmi politicamente realizzabili intorno ai quali costruire un consenso ampio. Costruire consenso richiede spesso di ridimensionare le proprie posizioni e i propri ideali per coinvolgere gli altri ed elaborare un compromesso che permetta di realizzare quel poco che le circostanze politiche, economiche e sociali del momento permettono di realizzare. Non si tratta solo di essere aperti a un compromesso politico, ma soprattutto a un compromesso con la realtà. Schlein non sembra molto disposta a cercare questo compromesso.

Anche Corbyn, come Schlein, si era candidato per dare una ‘scossa al partito’ e aggiungere una voce veramente ‘di sinistra’ a un dibattito interno che sembrava piuttosto stanco. Alla fine, però, rischiò di portare la propria parte politica a un tale livello di irrilevanza che ancora oggi quella voce è quasi impossibile sentirla. È uno dei tratti caratteristici della sinistra un po’ ovunque: l’essere disposti a perdere pur di restare fedeli alla purezza dei propri ideali. La politica, però, è l’arte del possibile e molto spesso del turarsi il naso. Nel 2016, durante una conferenza all’Università di Oxford, Alasdair Campbell, lo spin doctor laburista artefice dei successi elettorali di Tony Blair confidò all’uditorio: ‘il punto è che i Conservatori, quando si tratta di prendere il potere, non hanno pietà per nessuno e non credo che sia un male’; perché la conquista del potere è il presupposto essenziale per realizzare i propri programmi e ideali. Essa, però, dipende non da quanto ti amano ‘i tuoi’ ma da quanto ti votano ‘gli altri’. Non capirlo significa condannarsi a sparire.

*docente presso la Facoltà di Giurisprudenza della Keele University in Inghilterra

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