Lunedì 27 febbraio, con una certa emozione, ho assistito per la seconda volta, a distanza di molti anni, al concerto dei Musical Box, la cover band dei Genesis che ha ricevuto il beneplacito ufficiale dal gruppo in cui cantava Peter Gabriel.
Non che sia molto favorevole alle cover band, anzi. L’aspetto nostalgico può scadere nel patetico, ma la ragione che me le rende ostili è che hanno soppiantato le esibizioni di nuovi autori nei piccoli locali dove si fa musica. Perché le cover band costano poco e la fila di fan del gruppo “coverizzato” permette al localino un discreto guadagno spillando più birre del solito. Ecco allora moltiplicarsi sui piccoli palchi i cloni di Dylan, le controfigure degli Stones, Freddie Mercury magicamente redivivo.
Ma nel progetto dei Musical Box, roba da sale da teatro e non certo da dopolavoro, c’è un aspetto filologico e spettacolare che, oltre a riproporre gli stessi suoni della band originale su strumenti dell’epoca, vede un allestimento ricco e fedele che ci riporta a quando, con mezzi scenografici, costumistici e di proiezioni d’immagini, le band riuscivano a intrattenere il pubblico con una fantasia quasi degna di un melodramma. In cartellone c’è “The Lamb Lies Down on Broadway” dei Genesis, il concept album, cioè una storia (nel caso specifico simbolista, surreale e fantascientifica) contenuta in un disco, nel caso specifico, datato 1974.
All’ingresso del viale alberato delle “Celebrazioni” gruppi di amici, vicini ormai ai loro secondi quarant’anni, si affrettano incitandosi l’un l’altro con accenti provenienti da mezza Italia. Un pubblico che in platea siede composto, come nella migliore tradizione del pubblico del progressive anni ’70. Ma il contegno dura poco e qualcuno cede alla passionalità italiana con un tripudio di commenti colti intertestuali e aneddotica varia sui Genesis e sull’album rappresentato sul palco.
Più d’uno si azzarda a cantare i testi in strani gramelot, mentre il signore con il codino realizzato con un riporto di bianchi capelli non smette di urlare nell’orecchio del povero vicino il proprio entusiasmo, percepibile da tutti quelli seduti nelle file vicine. Alla fine del concerto qualcuno azzarderà la richiesta come bis di un brano che dura mezz’ora, cosa che neanche Springsteen al massimo delle energie si sentirebbe di eseguire.
Lo spettacolo: suggestivo, un tuffo in un’estetica fatta di cineserie, costumi grotteschi, teatri d’ombre, fotografie che colgono la New York, dove si svolge parte della storia, dei contraddittori anni ’70. Ne è valsa la pena anche se il gruppo Musical Box, che certo non passa indenne al trascorrere del tempo e al numero notevole di repliche dello spettacolo, risulta in vari momenti un po’ legnoso nell’esecuzione.
Uno spettacolo che in realtà sarebbe consigliato più ai giovani, per fare un tuffo in un periodo per loro corrispondente a un’era geologica ma che sarebbe certamente capace di sorprenderli e stimolare la loro creatività.