“Stando alla Cassazione, c’è un problema di configurabilità, ne siamo pienamente consapevoli. (…) Magari qualcuno sarà prosciolto, qualche posizione sarà archiviata, o magari i giudici riterranno che sull’epidemia colposa non si debba procedere“. A parlare così dell’inchiesta sui morti di Covid appena conclusa non è l’avvocato di Giuseppe Conte, Roberto Speranza, Attilio Fontana o di qualcun altro dei politici o dei dirigenti indagati. Bensì l’uomo che quell’indagine dovrebbe difenderla più di tutti: il procuratore capo di Bergamo Antonio Chiappani. Intervistato da Repubblica, il magistrato non sembra troppo convinto dell’ipotesi di reato che fonda la maggior parte delle accuse: cioè l’epidemia colposa, prevista dal combinato disposto degli articoli 438 e 452 del codice penale. Una fattispecie su cui “ci sono state sentenze controverse”, gli ricorda il cronista. “Sì, è un reato a condotta vincolata“, ammette il pm, “tutto ruota intorno all’interpretazione. Anche per questo vedremo se e a cosa porterà la nostra indagine”. “Vuol dire che finirà tutto a tarallucci e vino?”, è l’inevitabile domanda. “Non dico questo”, replica Chiappani, salvo poi – subito dopo – ventilare l’eventualità di un fallimento dell’ipotesi accusatoria. E in tv quasi si giustifica: “Di fronte alle migliaia di morti e alle consulenze che ci dicono che potevano essere evitati, non potevamo chiudere con una richiesta di archiviazione”.
Le norme – Insomma, il procuratore sembra mettere le mani avanti in vista di un probabile flop dell’inchiesta. Ma perché? Per capirlo serve chiarire le sue parole sui precedenti della Cassazione, e in particolare il concetto di “reato a condotta vincolata”. Partiamo dalle norme. L’articolo 438 è semplicissimo: “Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo”. Non essendo diversamente specificato, però, questo comportamento è punibile solo se doloso, cioè compiuto intenzionalmente: l’esempio è quello di chi versa una fiala contenente virus nelle condotte dell’acqua. E infatti il reato contestato dai pm di Bergamo è un altro: l’articolo 452, secondo cui “chiunque commette per colpa” il reato di epidemia rischia da tre a 12 anni di carcere (se ne deriva la morte di più persone). Ad esempio: una persona esce di casa per andare a lavorare consapevole di avere una grave malattia infettiva. La fattispecie dell’articolo 438 è “a condotta vincolata” (e non “libera”) nel senso che il comportamento punibile è descritto con chiarezza: non basta causare l’epidemia, ma serve farlo “mediante la diffusione di germi patogeni”.
Le accuse – I politici e i tecnici indagati, però, non sono accusati di aver “diffuso” il virus del Covid con una condotta attiva. Bensì – di fatto – di quello che tecnicamente si chiama reato omissivo: cioè di “non aver impedito” una diffusione già in atto, pur avendone l’obbligo. In particolare, nell’avviso di conclusione indagini si legge che l’ex ministro della Salute Speranza, l’ex assessore alla Sanità lombardo Giulio Gallera, il direttore dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro e altri sarebbero responsabili dell’epidemia “per colpa consistita nell’omettere” l’attuazione del Piano pandemico nazionale e del Piano pandemico regionale. Mentre la”colpa” dell’ex premier Conte, del governatore della Lombardia Fontana, dell’ex coordinatore del Comitato tecnico-scientifico Agostino Miozzo e di altri ancora sarebbe “consistita” – a vario titolo – “nel non proporre l’estensione” della zona rossa alla val Seriana, “nel limitarsi a proporre esclusivamente misure integrative”, “nell’aver omesso di adottare misure di contenimento e gestione adeguate”. Cioè tutte condotte negative, più che positive. E infatti in alcuni passaggi i magistrati bergamaschi ricorrono a evidenti artifici lessicali, parlando di colpe consistite “nel limitarsi a proporre”, “nel provvedere solo in data…” o “nel valutare come non sussistenti le condizioni per” adottare una certa misura.
La massima della Cassazione – E qui sta il punto debole dell’impianto della Procura. Perché la Cassazione è sempre stata chiarissima nell’escludere che il reato di epidemia possa esistere nella forma omissiva. I precedenti sono pochi, ma cristallini: l’ultima massima (cioè il principio di diritto estratto da una sentenza) risale al 2018 e recita che “in tema di delitto di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l’art. 438, con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’articolo 40, comma secondo (che disciplina il reato omissivo, ndr), riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera”. D’altra parte è evidente: se la norma ti punisce per aver compiuto una precisa azione, non puoi essere considerato responsabile per non averne compiuta una diversa.
Il precedente – La sentenza da cui è tratta la massima del 2018 riguarda un caso avvenuto a San Felice del Benaco, paesino in provincia di Brescia i cui abitanti – nel 2009 – erano stati colpiti tutti insieme da una forma di gastroenterite. Le verifiche dell’Asl avevano svelato “un’anomala presenza di microrganismi patogeni” nell’acquedotto comunale, i cui vertici erano stati condannati per epidemia colposa in primo grado e in appello “per avere cagionato, per colpa, la distribuzione per il consumo di acque pericolose per la salute pubblica”, a causa di “carenze nella manutenzione” e dell'”inosservanza di regole di buona tecnica nel processo di trattamento”. La Suprema Corte però aveva annullato la decisione, ricordando che per il codice penale “l’epidemia costituisce l’evento cagionato dall’azione incriminata la quale deve estrinsecarsi secondo una precisa modalità di realizzazione, ossia mediante la propagazione volontaria o colpevole di germi patogeni di cui l’agente sia in possesso”. E quindi non basta l’inosservanza di norme di buona condotta. Mentre la teoria seguita dai giudici precedenti – secondo cui “il legislatore avrebbe inteso solo demarcare il tipo di evento rilevante, ovvero le malattie infettive, e non già indicare una puntuale tipologia di condotta” – viene definita “del tutto minoritaria” e “riduttiva“. I pm di Bergamo sperano di rovesciare questo orientamento: il primo giudizio, tra non molto, spetterà al gip.