A meno di 24 ore dalla notizia della chiusura indagini sulla gestione della prima ondata Covid a Bergamo, il procuratore Antonio Chiappani spiega come si è arrivati alle conclusioni che hanno portato nel registro degli indagati l’ex premier Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il governatore della Lombardia Attilio Fontana, componenti del Cts e dirigenti lombardi. “Di fronte alle migliaia di morti e le consulenze che ci dicono che questi potevano essere eventualmente evitati, non potevamo chiudere con una archiviazione” ha detto il magistrato alla trasmissione Agorà su Rai 3 parlando dell’inchiesta chiusa e che è stata comunicato dall’ufficio con una nota di 21 righe senza i nomi degli indagati. “La nostra scelta – ha aggiunto Chiappani – è stata quella di offrire tutto il materiale raccolto ad altri occhi, che saranno quelli di un giudice, di un contraddittorio con i difensori perché è giusto che la ricostruzione la diano gli interessati e da tutto questo ricavare l’esperienza non solo di carattere giudiziario, ma anche scientifico, amministrativo” quindi “una lezione, una grandissima riflessione”. La speranza del procuratore è che “al di là delle accuse, delle polemiche che senz’altro ci saranno” questo sia “uno strumento di riflessione“.
Secondo Chiappani c’è stata una “insufficiente valutazione di rischio“. Ai microfoni di Radio ha dichiarato: “Il nostro scopo era quello di ricostruire cosa è successo e di dare una risposta alla popolazione bergamasca che è stata colpita in un modo incredibile, questa è stata la nostra finalità, valutare se un’accusa può essere mantenuta come noi valutiamo di fare proprio per questa insufficiente valutazione di rischio”. Chiappani ha ribadito che si è trattato di una “inchiesta complessa”, di “ricostruzione di vite spezzate”, chiarendo che si dovranno “dimostrare anche i nessi di causalità tra le morti e gli ipotizzati errori o mancanze”. C’è stata, ha spiegato, una “insufficiente valutazione del rischio pandemico” e, sul fronte della mancata ‘zona rossa’ nel Val Seriana, il procuratore ha precisato che l’indagine vuole dare una “risposta certa” su chi avesse la competenza di chiudere. Dal punto di vista giuridico, ha proseguito, c’era un decreto del 23 febbraio, ma poi si tratta anche di un “problema di fatto: sulla consapevolezza che poteva avere un sindaco che si fosse in una situazione di emergenza. E quindi – ha aggiunto – si rimanda al problema della ricostruzione dei dati che erano in possesso del sindaco o di un amministratore o di un presidente di regione o di un ministro“. Il problema della “nostra indagine”, ha spiegato, “è capire quale fosse il grado di conoscenza al fine di poter fare interventi di urgenza”. La zona rossa poteva essere dichiarata sia a livello regionale che locale.
Sulla questione del piano pandemico, infine, ha detto che “il problema qui è che va distinto l’aggiornamento dall’attuazione del piano, perché un piano, seppur vecchio del 2006, c’era e c’erano stati anche altri piani, come per la peste suina, che dicevano comunque che quando c’erano delle patologie di tipo respiratorio e contagi c’erano già delle forme di intervento previste”. Tuttavia anche quel piano vecchio, secondo i pm, non fu attuato. Con un “decreto” del “23 febbraio 2020 era stata richiamata la legislazione sanitaria precedente, per cui nel caso di urgenza c’era la possibilità sia a livello regionale sia anche a livello locale di fare atti contingibili e urgenti in termine tecnico, cioè di chiudere determinate zone, c’era questa possibilità e poteva essere fatto proprio in virtù di questo diretto richiamo, fatto in un decreto di emergenza del 23 febbraio. Il nostro problema è stato sì quello del mancato aggiornamento del piano pandemico, e questo riguardava un lato ministeriale, ma anche la mancata attuazione di quegli accorgimenti preventivi che già erano previsti nel piano antinfluenzale comunque risalente al 2006”.