Ora che la polemica politica parrebbe essersi parzialmente sopita, val la pena di tornare sul tentativo, tutto italiano, di darsi, o ridarsi, una sorta di “diritto autarchico”, un ordinamento, cioè, del tutto scollegato dal quadro normativo tanto europeo quanto internazionale. Il ministro della Giustizia, che nelle ultime settimane si segnala per un iperattivismo a mio giudizio eccessivo, ha più volte dichiarato e parrebbe si sia impegnato ad abrogare la norma sull’abuso d’ufficio, persino nell’attuale depotenziato testo, perché disposizione che ingenererebbe, nei pubblici ufficiali e negli incaricati di pubblico servizio, una presunta “paura della firma” che, a sua volta, sarebbe foriera di tremendi ritardi nell’attuazione e realizzazione dei progetti del Pnrr.

Comprendo che talora abbiamo assistito a una interpretazione davvero zelante, quando non grottesca, dell’abuso d’ufficio, da parte di solerti pubblici ministeri che sono giunti a contestare a un sindaco tale reato dopo che era crollato lo stipite di una porta di un edificio scolastico, saltando piè pari il ruolo di culpa in vigilando di bidelli, impiegati, docenti, dirigenti scolastici, ecc., ma la ragione addotta per favorire l’abrogazione della norma non appare minimamente apprezzabile, se solo si pensa alle migliaia di procedimenti amministrativi che quotidianamente i pubblici funzionari processano e concludono nella più assoluta normalità e correttezza.

Evidentemente ciò che si teme, a torto o a ragione, è l’intervento del magistrato nei casi in cui si ha il più che fondato sospetto che il procedimento amministrativo, che sia un appalto o un concorso pubblico, presenta, per così dire, zone d’ombra tali da integrare più di una ipotesi delittuosa. Che siano, poi, i sindaci, attraverso la loro associazione maggiormente rappresentativa, l’Anci, a invocare tale riforma, appare quanto meno sospetto, se solo si leggono le cronache quotidiane che molto spesso li vedono coinvolti in procedimenti giudiziari decisamente preoccupanti.

Ciò che il ministro non dice, tuttavia, è l’esistenza della Convenzione di Merida, che il nostro Paese ha proceduto a ratificare con la legge 116 del 2009 che ci obbliga, in maniera chiara e incontrovertibile, a introdurre, o a mantenere, adeguate disposizioni normative volte a perseguire proprio quell’abuso d’ufficio che si vorrebbe del tutto depenalizzare. Anzi, la norma attualmente in vigore, di recente modificata per ridurre la capacità di intervento della magistratura requirente non senza aspetti problematici come quello riguardante ad esempio l’Università, settore nel quale il reato non è contestabile perché talvolta a essere violati sono i Regolamenti, fonti escluse dalla novella alla disposizione, non appare per nulla conforme agli impegni assunti dal nostro Paese nella suddetta Convenzione, perché eccessivamente tollerante rispetto a quanto accade troppo spesso nella nostra pubblica amministrazione.

“Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona o entità”, questo il testo dell’art. 19 della Convenzione di Merida che appare tanto chiaro da non meritare ulteriori considerazioni.

Ciò che sorprende, al contrario, è l’atteggiamento davvero imbarazzante del legislatore, talora purtroppo senza distinzioni di appartenenza politica, che non coglie, o piuttosto fa finta di non cogliere, il diffuso senso di impunità che viene percepito rispetto ai reati contro la pubblica amministrazione, aggravato, ovviamente, dalla difficoltà di svolgere indagini efficaci ed efficienti (per molti reati non sono ammesse le intercettazioni e men che meno la custodia cautelare), nonché dalle nuove norme che prevedono l’improcedibilità decorso un certo lasso di tempo. Insomma, la classe politica attuale è molto distante dalla cosiddetta società civile: mentre quest’ultima invoca giustizia e certezza della pena, quella immagina di depenalizzare taluni gravi reati o di depotenziare l’attività dei pubblici ministeri o della polizia giudiziaria. Con buona pace degli impegni presi in Europa e altrove.

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