L'ammiraglio in congedo delle Capitanerie di porto: "È come se di fronte a un incendio che sta divorando case e persone si invia la polizia che deve identificare il piromane. No, si devono chiamare i vigili del fuoco"
Dai decreti sicurezza in poi si è innestata “una distorsione istituzionale“, “una sorta di vizio” per cui il fenomeno migratorio è considerato innanzitutto un caso di polizia su cui indagare, già in mare. E invece le convenzioni internazionali dicono che le persone vanno salvate. Quanto accaduto a Cutro, 67 vite perse per annegamento e ipotermia, “poteva succedere prima e potrebbe ripetersi”. Vittorio Alessandro, 67 anni, ammiraglio in congedo delle Capitanerie di porto, ha un’idea molto chiara su come “una grande risorsa: l’esperienza e la qualità della nostra Guardia costiera” venga annullata se “i soccorsi devono essere sottoposti alla supervisione di polizia“, se chi è al vertice di quel coordinamento ha l’obiettivo di cercare i responsabili di immigrazione clandestina piuttosto che salvare le persone: “È come se di fronte a un incendio che sta divorando case e persone si invia la polizia che deve identificare il piromane. No, si devono chiamare i vigili del fuoco”. Alessandro, che ha curato la sicurezza in mare, i soccorsi e la tutela dell’ambiente marino nelle Capitanerie di Napoli, Civitavecchia e Roma e ha comandato i porti di Sant’Antioco, Portoferraio e La Spezia, al Fattoquotidiano.it spiega come quale sia l'”elemento dissonante” che ha portato probabilmente a una “sottovalutazione” di quello che stava iniziando a succedere a 40 miglia dalla spiaggia calabrese diventata poi una distesa di cadaveri imbustati in teli di plastica bianchi. Una denuncia su “un orientamento pericoloso” e non un atto d’accusa “con cui si cercano colpevoli”.
Ammiraglio in una intervista ha dichiarato che quanto avvenuto a Cutro può essere imputato a un “vizio” istituzionale: ovvero con il passaggio di fatto al ministero dell’Interno della decisione se un intervento di salvataggio scatti oppure no.
Negli ultimi anni c’è stata uno scivolamento sempre più netto verso una impostazione di polizia sui soccorsi delle imbarcazioni con i grandi numeri. Quindi ci riferiamo a soccorsi di migranti. Ora questo diverso orientamento istituzionale non fa i conti con le norme e le convenzioni che parlano di salvataggio delle vite umane in mare. E non di verifica di chi, come, quando o perché. La prassi ormai, a partire dai decreti sicurezza di Salvini in poi, ha fatto sì che il coordinamento delle attività in mare sia ormai sottoposto a un super coordinamento per le attività di salvataggio. È successo che il tema dell’accoglienza si sia allargato al mare. Come se in mare, e qui c’è una deficienza culturale, si possa decidere chi merita e chi non merita accoglienza. E recentemente questa attività è stata spostata anche in banchina con la vicenda del carico residuo. Tutto questo con il soccorso marittimo non c’entra nulla e le attività di law enforcement e quindi di polizia anti immigrazione devono svolgersi a terra perché se si spostano in mare rischiano di produrre fenomeni tipo Sibilla quando nel canale d’Otranto la nave della Marina cercò di intercettare la rotta di un grosso rimorchiatore che veniva dall’Albania (Il 28 marzo del 1997 i morti furono 108. Governo Prodi ndr). Dal momento in cui partono, che ci sia o no lo scafista, che siano in grado di arrivare con i propri mezzi o no, in mare l’attività è un interruttore: salvo, non salvo.
Cosa è successo quindi negli ultimi anni?
Succede che si ritenga che una imbarcazione, che percorre un tratto di mare in condizioni di rischio (per esempio se è strapiena) che però naviga ed è in galleggiamento, non sia considerata in pericolo ovvero in distress, che è requisito e premessa del soccorso secondo le convenzioni internazionali. L’imbarcazione che parte stracarica, se anche ha un livello di spinta che l’aiuta fino a terra, è comunque in pericolo. E anche se ha i motori attivi è in pericolo. Fino a qui noi agivamo diversamente da Malta che fornisce acqua e giubbotti e poi indica la via dell’Italia, agivamo diversamente dalla Grecia dove si sono guardati dall’approdare. L’Italia agiva in modo diverso, adesso che questo possa essere indicato come pull factor (un incentivo a migrare, ndr) non deve importare: è una questione di civiltà marinara, giuridica e di coscienza civile.
Ma quindi secondo lei i migranti di Cutro l’Italia non li ha voluti salvare?
Non penso questo. Io penso che si sia insediata una sottovalutazione del soccorso in mare e che questa sottovalutazione abbia aperto di fatto a questo incidente, ad altri che avrebbero potuto verificarsi e si potranno verificare. La premessa è proprio che il soccorso non sia anteposto ad altre questioni e che receda o venga derubricato rispetto al rischio di arrivi di migranti che ci occupano e ci cambiano l’identità. Se succede questo, anche se non si vuole precisamente che la gente affoghi – e io penso che non ci sia nessuna volontà – però di fatto si apre la strada perché questa cosa accada.
Il comandante di Crotone Aloi parla di ricostruzione molto complessa: piani, accordi e regole di ingaggio non gestite dal ministero dell’Infrastrutture. Cosa vuole dire? Non si tratta di legge ma…
Sì, ci sono stati decreti ma ha fatto bene Aloi a parlare di piani e accordi ministeriali, che stanno al di sotto della legge. La legge è chiara, i soccorsi in mare ricadono nella piena responsabilità del Comando generale delle capitanerie di porto (Mrcc) però se accordi ministeriali creano una superstruttura che di fatto avoca a sé il giudizio su ogni evento che riguarda i migranti la legge non viene infranta, ma soffocata sicuramente. Perché in una situazione normale Frontex ha notizie di un pericolo, se è pericolo in mare si rivolge all’ente competente ad aprire l’evento Sar (Search and rescue, ricerca e salvataggio) ad affrontare l’emergenza ovvero la Capitaneria di porto. Frontex invece scrive all’International coordination center (organismo interforze e tra i 26 indirizzi per conoscenza c’era anche la Guardia di finanza, ndr). Tutto coerente, ma così lascia fuori proprio la Capitaneria di porto.
Il procuratore di Crotone ha dichiarato in una intervista che Frontex andrebbe ripensata. È d’accordo?
Frontex è l’Agenzia europea della guardie di frontiera e costiera, ma in mare ci sta poco perché ha soprattutto veivoli. Manda segnalazioni anche alle milizie libiche che corrono a riprendersi i fuggiaschi. Frontex si dedica alla protezione delle frontiere e se a un certo punto in Italia c’è uno scenario che chiama in causa tutte le forze in mare, dal pescatore in poi, per esigenze di soccorso, tutti devono sottostare a un’unica centrale di coordinamento finalizzata al soccorso. Una volta che le persone sono a terra si può fare tutto il resto, ma in mare si salvano le persone. E se io affronto soltanto il caso sotto il profilo di polizia, ricerca di responsabili di immigrazione clandestina, di attività di traffico di persone, se mi occupo solo di questo è come se di fronte a un incendio che sta divorando case e persone io invio alla polizia che deve identificare il piromane. No, si devono chiamare i vigili del fuoco.
La Guardia costiera può intervenire in autonomia? Prima dell’avvistamento da parte dell’aereo Frontex era stato emesso un dispaccio del Mrcc in cu si parlava di una generica barca in pericolo nello Ionio (a boat in distress).
A questo domanda non so rispondere perché ora non conosco più i protocolli operativi e tecnici. Parliamo di persone però che ogni giorno si spendono su ogni fronte e senza riserve nei salvataggi. Si tratta probabilmente di una sottovalutazione che ha a che fare con protocolli, che hanno a che fare con un sistema burocratico. Ci si rimette al sistema che appare il più giusto e normale, ma non ci si accorge che a questa ordinarietà, penso alla banalità del male, può sfuggire il caso grave. Un caso che magari richiede un atto di coraggio, anche solo un guizzo. In passato la Guardia costiera non doveva avvertire nessuno, andava dappertutto. Adesso il rischio è che si diventi taxi del mare. Ci sono state navi come la Gregoretti e la Diciotti che hanno avuto un timbro che ancora adesso è difficile da cancellare anche se sono cambiati i ministri. Il discorso del pull factor – con cui ci si riferisce alle ong – domani potrebbe andare bene per chiunque faccia soccorso nel Mediterraneo.
Se quel messaggio, per quanto generico, fosse stato trattato con maggiore attenzione forse l’evento Sar – mai partito – invece sarebbe scattato con i relativi soccorsi e le imbarcazioni adatte a qualsiasi mare che fosse 4, come è stato accertato, oppure 7 come era stato detto.
Forse sì, ma comunque in questi casi è meglio sbagliare per eccesso che per difetto. Basta innestare nel meccanismo mentale questa domanda: se ci fosse mio figlio a bordo. Basta questo.
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha detto che si assume la responsabilità di eventuali debolezze.
Una volta salvare vite comportava simpatia e riconoscimenti. Adesso c’è ostilità e questi equipaggi lavorano in condizioni anche psicologicamente difficili perché è come se facessero qualcosa di sbagliato: nessuno sa quante volte escono, quale rischio corrono ogni volta. È una tema uscito di scena, ma scivoloso da far male.
Possiamo chiamarla debolezza?
No. È una distorsione istituzionale, una sorta di vizio, una specie di elemento dissonante che ha rotto quello che in Italia costituiva una grande risorsa: l’esperienza e la qualità della nostra Guardia costiera. Quando i soccorsi devono essere sottoposti alla supervisione di polizia qualcosa non torna. Quanto successo a Cutro poteva succedere prima e potrebbe ripetersi ancora.