Che ci vogliate credere o meno (il via libera è stato appena rinviato, ndr), il Green New Deal potrebbe aprire la stagione di un altro affare colossale, dal nome decisamente meno seducente: ‘Deep Sea Mining’, ovvero l’estrazione di minerali in acque profonde. Nelle inesplorate fosse oceaniche, scavando dentro il fondo magari addirittura sotto cinquemila metri di acque, nel bel mezzo del Pacifico, per esempio, si dovrebbero trovare alcuni minerali indispensabili alla produzione di batterie elettriche, cobalto, manganese, nichel, rame e litio, che viceversa scarseggiano già oggi sulla terra.

Considerando che l’orbe terraqueo è ancora incognito al 90 per cento per quanto riguarda appunto il mare profondo, nessuno può valutare quali conseguenze potrà avere sull’eco-sistema questa attività che le grandi compagnie minerarie vorrebbero intraprendere decisamente, con la scusa di dover sostenere la cosiddetta ‘svolta verde’ che hanno annunciato di voler perseguire i governi occidentali, dagli Stati Uniti alla Comunità Europea. E’ solo una delle contraddizioni più evidenti della riconversione dell’industria dell’auto, che oggi versa in uno stato comatoso nonostante quel che appare dagli stipendi messi a bilancio per i manager, come Carlo Tavares del trust Stellantis che comprende oggi anche la Fiat.

Certo, del ‘Deep Sea Mining’ difficilmente sentirete parlare sui media tradizionali che sostengono la riconversione dell’automotive; magari un giorno lo spettro degli scavi oceanici è stato già citato da qualche parte in un articolo, come la notizia dei quasi 15 milioni di euro di stipendio del mega-boss automobilistico che la Repubblica ha rivelato qualche giorno fa in un articolo coraggiosamente intitolato Stellantis rivede i compensi dei manager. Taglio anche a Tavares (sic!): del resto, si legge, doveva prenderne 2 e rotti in più, e poi guadagna pur sempre poco rispetto al “manager inglese Richard Manley, ex amministratore delegato di Fiat-Chrysler, che ha ricevuto 51,2 milioni di euro nel marzo 2022 per il suo contributo alla fusione”, scrive ancora il giornale di casa Elkann.

Agli scavi sperimentali dell’industria mineraria nell’oceano Pacifico hanno dedicato il loro ultimo lavoro documentaristico, Out of blue, due giovani artisti teatrali belgi, Silke Huysmans e Hannes Dereere, che sono stati invitati a Milano, al teatro Out Off, da un’associazione culturale meritoria, Zona K, che presenta volentieri spettacoli così innovativi. Con le loro performance, che risultano incantevoli nonostante la drammaticità del tema e il taglio decisamente d’inchiesta, Huysmans&Dereere mescolano elementi giornalistici e documentaristici all’interno del teatro. Il racconto di ‘Out of blue’ si svolge attraverso quattro grandi schermi di proiezione e altri quattro di servizio, e parte da una zona remota dell’Oceano Pacifico, dove nella primavera 2021 si sono incrociate tre navi: la prima appartiene alla società belga Deme-Gsr e trasporta un incredibile robot di dragaggio che si può appoggiare a 4-5 chilometri sotto la superficie del mare, per raschiare il fondale alla ricerca di metalli; segue una seconda nave, con un team internazionale di biologi e geologi marini che controllano questo testo; una terza nave completa la piccola flotta: è la Rainbow Warrior degli attivisti di Greenpeace, che vogliono documentare i rischi di questa nuova frontiera dell’industria mineraria, e consentono tra l’altro anche a Huysmans&Dereeere di raccogliere i materiali per questo spettacolo ‘Out of blue’, collegati in remoto dalla loro casa a Bruxelles.

I due artisti-documentaristi belgi lavorano dal 2016 a una trilogia su questi temi. La prima parte, ‘Mining Stories’, è stata realizzata in Brasile nei luoghi di un grave disastro ambientale del 2015, seguito allo scoppio di una diga che ha inondato una vasta area incontaminata con rifiuti minerari tossici. Nel 2019, la seconda parte, ‘Pleasant Island’, aveva per centro lo stato insulare di Nauru, che era una volta un paradiso nel Pacifico, ma dopo decenni di colonizzazione e di estrazione mineraria è stato letteralmente devastato ed è finito quasi sott’acqua. Non è facile sollevare il velo del riserbo su questo potentissimo settore economico, che muove interessi enormi. Il lavoro di Huysmans&Dereere sicuramente si propone come una pregevole svolta di linguaggio e di contenuti rispetto al tradizionale teatro civile di parola, ma questo ‘Out of blue’ ha anche il merito di accendere un faro sui potenziali risvolti ecologici negativi della svolta elettrica nell’automotive, che pure viene presentata come fulcro di un Green New Deal.

Nella distrazione generale le grandi compagnie minerarie sono già pronte a perforare alcune aree marine considerate ricche di metalli preziosi. La sola Clarion clipperton zone (CCZ), circa mille chilometri ad ovest della costa messicana, conterrebbe 34 miliardi di tonnellate di noduli di manganese, sparsi su una superficie di 9 milioni di kmq. E immaginate come sarà complesso recuperare le risorse nel ‘deep sea’, che secondo gli esperti si nascondono sotto tre forme: ‘noduli polimetallici’ che somigliano alle patate e si trovano in veri e propri campi, a 4-6 mila metri di profondità; ‘solfuri polimetallici’, già reperibili tra i 2 e i 4mila metri, ovvero grumi di oro, zinco, piombo, rame e terre rare attaccati intorno alle crepe del sottosuolo; croste di cobalto, infine, condensate in strati spessi fino a 25 centimetri che coprono come ghiacciai i fianchi delle montagne sottomarine.

Vogliamo distruggere anche questo pezzo di pianeta, in nome del ‘greenwashing’ delle auto? Non sarebbe ora di cambiare proprio modello di sviluppo?

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