Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha assicurato ai parenti delle vittime del naufragio di Crotone che si occuperà della situazione e che gli afghani “sono richiedenti asilo e la loro situazione è prioritaria”. Parole che seguono di qualche giorno quelle del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che se l’era presa con i “genitori irresponsabili” che hanno portato con sé i loro bambini. Tanto da rivolgersi a quanti sono pronti a partire: “State lì – ha dichiarato – vi veniamo a prendere noi“. Nella tragedia del 26 febbraio, molti migranti venivano dall’Afghanistan, il paese che insieme alla Siria ha gonfiato la rotta del Mediterraneo orientale di migranti. E molte polemiche ha sollevato il ministro quando ha voluto precisare che no, “da disperato” non sarebbe partito: “Sono educato a chiedermi cosa posso dare al mio Paese”. Ma cosa accadrebbe al ministro se fosse davvero un profugo afghano? Cosa attende i milioni di sfollati dal Paese? Ma soprattutto, come hanno risposto finora l’Europa e l’Italia ai richiedenti afghani? A volersi proprio immedesimare, c’è addirittura il rischio di scoprire che ad ostacolarli concorre lo stesso Piantedosi del “veniamo a prendervi”.
Nell’agosto del 2021 i Talebani sono tornati al potere dopo che Stati Uniti e alleati occidentali hanno deciso di ritirare i contingenti e lasciare il paese. Una presenza durata vent’anni, abbastanza per arruolare milioni di afghani al cambiamento. E svanita nel giro di poche settimane. Cosa è rimasto lo dicono i vertici del Programma alimentare mondiale (Pam) dell’Onu: “L’inferno in terra“. Così definiscono l’Afghanistan, dove 23 milioni di persone rischiano la fame e dall’Occidente non arrivano abbastanza fondi per sottrarre i bambini alla denutrizione. “Negli ultimi due inverni, in molte aree la maggioranza delle persone ha dovuto scegliere se riscaldarsi o mangiare”, riportano le Nazioni Unite. Come non bastasse, chi ha lavorato nelle istituzioni o collaborato con le forze occidentali viene perseguitato, torturato e rischia la vita. Alle donne e alle ragazze sono stati tolti i diritti, l’istruzione è stata negata, mentre attiviste, giornaliste e collaboratrici delle ong sono vittime di violenza, di stupri e rischiano la lapidazione, mentre sono in forte aumento i matrimoni precoci.
Dei 28 milioni di afghani che secondo l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) necessitano di assistenza umanitaria, 2,7 milioni sono quelli fuggiti all’estero dopo l’agosto 2021 e la maggioranza è composta da donne e bambini. Chi riesce a fuggire per lo più finisce in Pakistan o in Iran, dove si trova attualmente l’85% dei rifugiati afghani. Il Pakistan, che di problemi ne ha già abbastanza, è ora tra i primi paesi al mondo per rifugiati “accolti”. Sani e salvi? Corruzione e intolleranza sono quotidiane. Molte afghane raccontano di vivere in clandestinità, coprendosi con l’abaya e lasciando scoperti solo gli occhi per confondersi con le donne locali, ha riportato il Guardian. Niente socialità né istruzione per loro, perché in Pakistan sono in aumento i casi di incarcerazione e respingimento degli afghani, bambini compresi. Così chi può si rimette in viaggio. Ma chiariamo subito una cosa: i rifugiati afghani come non possono semplicemente salire su un aereo. “Eppure i soldi per pagare i trafficanti e rischiare la vita in mare li hanno”, accusa da sempre una parte dell’opinione pubblica. “La verità è che ad oggi non esiste un visto che consenta di chiedere asilo nel Paese di destinazione e in ogni casi molti rifugiati non hanno un passaporto valido né un documento di identità. L’unica possibilità di spostarsi in maniera sicura e regolare sono i programmi umanitari, ma proprio a causa dei posti limitati i più sono costretti a intraprendere viaggi irregolari e pericolosi”, ha chiarito l’Unhcr al Redattore Sociale.
Nel 2021 l’Unione europea e i suoi Stati avevano promesso di impegnarsi nell’evacuazione del personale locale e degli afghani a rischio. Ma dopo l’agosto di quell’anno, quando l’Italia evacuò 5.000 persone a partire dai suoi collaboratori, l’atteggiamento è cambiato. “Con alcune eccezioni, la maggior parte degli Stati membri ha interrotto l’evacuazione del proprio personale locale e degli afghani a rischio”, riferiscono le organizzazioni europee al fianco della diaspora afghana. La speranza sono i corridoi umanitari, voli che partono da Iran e Pakistan grazie alle organizzazioni umanitarie. Ma finora l’Ue non ha concesso che 36mila quote, e nemmeno quelle sono state raggiunte tanto che l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi, ha dovuto appellarsi ai Paesi membri perché rispettassero almeno quell’impegno. L’Italia ha siglato il suo protocollo nel novembre 2021, per 1200 quote di ingresso in due anni. 800 riguardano i corridoi umanitari attivati grazie a organizzazioni come Arci, Caritas e Comunità di Sant’Egidio, che finora si sono accollate i costi, accoglienza compresa. E solo 400 sono i reinsediamenti concessi all’Unhcr, con le persone inserite direttamente nell’accoglienza ordinaria a carico dello Stato. Quattrocento persone, in due anni. “Abbiamo scritto a Piantedosi per chiedere altre quote, perché migliaia di persone in pericolo ci scrivono”, spiega l’Arci a ilfattoquotidiano.it. Ma il ministro del “vi vengo a prendere” non ha ancora risposto.
Il responsabile Arci per l’immigrazione Filippo Miraglia non ha dubbi: “La volontà di fare arrivare le persone legalmente e in modo sicuro non c’è”. A dimostrarlo sono i visti umanitari che l’Italia potrebbe concedere di fronte a situazioni di particolare rischio. E che invece si incagliano nei nostri tribunali, dove alcuni avvocati impugnano i dinieghi e si trovano contro proprio il ministero dell’Interno, che di visti umanitari non ne vuole sapere. Tra le persone cui è stato negato un visto ci sono anche famiglie attualmente in Turchia, primo paese al mondo per rifugiati e partner dell’Unione nella dichiarazione bilaterale del 18 marzo 2016, con l’Ue che ha investito più di nove miliardi perché Ankara impedisse ai migranti di proseguire verso l’Europa. Migliaia di afghani arrivano in Turchia, ma ad attenderli è oggi un paese destabilizzato dalla crisi economica e dal terremoto del 6 febbraio scorso. Chi guarda all’Europa, guarda la Grecia. Entrarci è un’impresa sempre più complicata. I rapporti di organizzazioni come Human Rights Watch sulle violenze della polizia greca non si contano. “Picchiati, denudati, derisi, derubati”, sono parole frequenti. Per respingerli, Atene utilizza addirittura altri migranti ai quali promette di rilasciare i documenti. C’è chi è stato messo su una barca, portato in acque turche e, privo di motore, “lasciato andare”. Altri hanno raccontato di essere stati semplicemente buttati in acqua a un centinaio di metri dalla costa. Uno di loro è morto.
Il governo greco non si è mai fatto intenerire dalla crisi afghana che ha contribuito a giustificare il muro alto 5 metri, lungo 35 chilometri e pronto a raddoppiare entro l’anno. Poi ci sono le nuove navi, l’aumento dei pattugliamenti e le elezioni a luglio per un esecutivo di centrodestra in cerca del secondo mandato. Ma entrare in Grecia non è tutto. Bisogna evitare i famigerati campi profughi delle isole greche in cui il sovraffollamento è solo il minore dei mali. Un limbo finanziato dall’Europa dove le persone passano anni nell’attesa che la propria domanda d’asilo torvi risposta. Nonostante le condizioni di vita, i casi di reinsediamenti verso altri Paesi europei sono poche migliaia in tutto. L’alternativa a una Grecia sempre più impenetrabile è la Bulgaria, per poi proseguire in Serbia. A febbraio 18 afghani sono morti all’interno di un camion abbandonato nei pressi della capitale bulgara, Sofia. Venivano dalla Turchia diretti verso l’Europa occidentale, nascosti sotto assi di legno e imballati “come in una scatola di latta”, hanno detto i testimoni. Tutti morti per soffocamento. Vuoi mettere coi rischi delle rotte via mare? Non fosse questione di soldi, sarebbe un vero dilemma. Le cosiddette rotte balcaniche sono infatti diventate il martirio di molti. Dall’Ungheria di Orbàn ai boschi della Bosnia, muri e violenze hanno modificato i percorsi rendendoli sempre più impervi. Difficoltà che si trasformano in milioni di euro per i trafficanti. Tutto ha un prezzo, anche un consiglio sul sentiero da prendere. Perché bisogna sfuggire alla polizia, ai paramilitari, ai cani e ai droni. “Gli afghani sono tra i richiedenti asilo più colpiti dalla violenza e dai respingimenti alle frontiere Ue”, dice un recente rapporto del network inter-europeo Protecting rights at borders, che ha raccolto migliaia di casi di respingimento alle frontiere dell’Ue: più della metà riguarda richiedenti afghani.
L’Italia, quella del ministro Piantedosi, fa la sua parte. Con le “riammissioni informali” a catena nel 2020 l’Italia respinge 1.294 persone, tra cui molti afghani. Riconsegnati alla polizia slovena che li mette in mano a quella croata che infine li abbandona nei boschi della Bosnia, spesso dopo aver subito percosse o bruciature, spogliati anche delle scarpe e derubati di ogni avere. Risultano persone respinte decine di volte. Famiglie che hanno perso la speranza e vivono di espedienti tra la Serbia e la Bosnia. Le riammissioni informali sono illegali, basate su un accordo bilaterale con la Slovenia che il nostro Parlamento non ha mai ratificato. Questo impedisce all’accordo di modificare le norme vigenti, italiane ed europee, in materia di asilo. I tribunali le hanno condannate riuscendo a interrompere pratiche che hanno esposto i migranti a “trattamenti inumani e degradanti”. Al ministro del “veniamo a prendervi noi” va quantomeno ricordata la sua intenzione di ripristinare il “vi respingiamo noi”. Nel 2020, quando firmò la circolare sulle riammissioni in Slovenia. E di recente nel ruolo di ministro, quando ha rivendicato la loro “legittimità” annunciando di volerle ripristinare.
E tuttavia non si respinge solo chi arriva via terra. L’Italia è stata condannata anche per le riammissioni informali operate nei porti di Ancona, Bari e Venezia. Gli afghani che hanno provato a imbarcarsi sui traghetti dalla Grecia e dall’Albania sanno che il rischio di non mettere piede a terra è alto. La pratica è tornata in auge, tempi che corrono. Le persone affidate ai comandanti che le “trattengono” sulle navi e le riportano indietro, attuando respingimenti illegali perché privi di provvedimento amministrativo contro il quale poter ricorrere, come la legge prevede. Chi invece si imbarca in Turchia, affrontando viaggi di giorni verso la Puglia e la Calabria come hanno fatto i naufraghi di Crotone, tiene conto delle difficoltà sopracitate, in particolare se viaggia con donne e bambini. Tutto considerato, che un profugo afghano riesca ad arrivare in Italia sembra quasi un miracolo. Se in Afghanistan, Iran e Pakistan non facciamo abbastanza, dalla Turchia ai confini europei facciamo di tutto per impedirgli di arrivare. Lo dice la Caritas Europea: “Gli Stati membri hanno concentrato i loro sforzi più sul contrasto all’arrivo degli afghani che sull’attuazione di politiche di protezione efficaci per quanti di loro chiedono asilo a causa di esigenze in drammatico aumento”.
Qualcuno per sua fortuna ce la fa. Ma i guai non finiscono di certo con l’arrivo in Europa. “Molti governi europei hanno sospeso l’esame delle domande di asilo afghane già nell’agosto 2021, in piena emergenza umanitaria”, ricorda il Consiglio europeo per i rifugiati e le persone in esilio. E tuttora il numero delle richieste d’asilo pendenti continua ad aumentare, come mostrano i dati di Eurostat. Non solo, secondo l’Agenzia dell’Unione Europea per l’Asilo (Euaa) i tassi di riconoscimento di protezione ai richiedenti asilo afghani diminuiscono, con dati che variano notevolmente da uno Stato membro all’altro. Perché? Non sono i benvenuti, chiaro e semplice. Al netto della recente boutade del ministro, ma anche dell’impegno del presidente Mattarella, non esistono percorsi legali e sicuri per entrare in Europa, Italia compresa. Il diritto fondamentale di presentare domanda d’asilo e il fatto di essere in fuga da una tragedia non conta niente. Anzi, l’Ue investe tutti gli anni centinaia di milioni per evitare che gli afghani arrivino fino a noi. E nel malaugurato caso che dovessero farcela, proveremmo a rispedirli indietro, possibilmente in modo “informale” e senza lasciare alcuna traccia.