Sono due degli atti di accusa contenuti nella relazione del microbiologo e deputato Pd agli atti dell'inchiesta sulla gestione della prima ondata di Sars-Cov-2 in Val Seriana nella quale figurano tra gli indagati anche l'ex premier Conte, l'ex ministro Speranza e i suoi tecnici. Le "valutazioni e le decisioni del Cts prese il 28 febbraio", si legge, "avranno conseguenze devastanti nel controllo dell’epidemia in Italia che si trova da quel momento in balia all’improvvisazione"
C’era la consapevolezza di scarsità di mascherine con largo anticipo rispetto ai primi casi noti e nei primi giorni l’ordine fu di non fare test agli asintomatici per non “sovrastimare” il “fenomeno” Covid. Sono due degli atti di accusa contenuti nella relazione del microbiologo e deputato Pd Andrea Crisanti agli atti dell’inchiesta sulla gestione della prima ondata di Sars-Cov-2 in Val Seriana nella quale figurano tra gli indagati anche l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza e i suoi tecnici. Il parere di Crisanti è una delle architravi dell’inchiesta della pubblico ministero Maria Cristina Rota ed è un atto di accusa a tutto tondo alla gestione dell’allerta dopo i casi in Cina e all’approccio ai primi casi individuati in Italia.
“Già dal giorno 12 febbraio 2020″, ossia otto giorni prima di paziente 1 individuato a Codogno, i componenti “prima della della task force del ministero e poi del Cts” erano “consapevoli della difficoltà di reperire Dpi e materiali per la loro produzione” e quindi conoscevano “la situazione di vulnerabilità in cui si trovava l’Italia e del rischio a cui avrebbero esposto la popolazione e gli operatori sanitari non prendendo iniziative idonee”, scrive Crisanti. Tra gli effetti, ricorda, ci fu la decisione presa nelle strutture ospedaliere più colpite nei primi giorni: per “sopperire” alla carenza di mascherine chirurgiche e di Ffp2, nei giorni successivi al 23 febbraio 2020, agli operatori sanitari dell’ospedale di Alzano Lombardo è stato suggerito e data l’autorizzazione “a utilizzare le mascherine dei kit anti-incendio presenti” nei reparti. Dalle chat – rimarca il microbiologo – risulta che il personale “è stato istruito a riutilizzare” le Ffp2, “procedura contraria a ogni principio di sicurezza e prevenzione”.
Nella struttura ospedaliera in provincia di Bergamo, secondo Crisanti, il Covid circolava già dal 4 febbraio, più di due settimane prima della data in cui venne accertata la positività di Mattia Maestri. C’erano infatti tre pazienti infetti ricoverati nel reparto di Medicina al terzo piano e uno nel reparto al secondo piano “con un quadro clinico compatibile con infezione da Sars-Cov2 poi confermata con tampone molecolare”, sintetizza nella consulenza. Eppure anche dopo il caso di Codogno, ricorda Crisanti, il Cts “evidenziava che in assenza di sintomi il test era ingiustificato” parlando del rischio di “una ‘sovrastima del fenomeno sul Paese'”. Era il 24 febbraio, specifica il microbiologo, e quella indicazione “avrà gravi conseguenze invece per comprendere cosa stava realmente accadendo”, perché il “conteggio dei casi asintomatici” avrebbe dato “informazioni cruciali sull’entità della diffusione” del Covid. Nella consulenza è riportata una mail su questo tema del 24 febbraio, inviata da un professore dell’Imperial College di Londra e arrivata a membri del Cts, che non fu presa “in debita considerazione”.
Tra le varie posizioni esaminate da Crisanti c’è anche quella dei sindaci della Bergamasca. I “messaggi” acquisiti dalla procura, “scambiati tra i sindaci della Val Seriana con il dottor Massimo Giupponi”, all’epoca direttore generale dell’Ats di Bergamo, “emerge” come i primi cittadini “avessero ricevuto istruzioni di non prendere iniziative personali”, mentre “avrebbero potuto autonomamente istituire tempestivamente” la zona rossa ad Alzano e Nembro. I sindaci, si legge, “hanno preferito allinearsi alla indicazioni delle autorità sanitarie e politiche di Regione Lombardia” e hanno “rassicurato le proprie comunità invece di prendere decisioni che avrebbero bloccato il contagio”. Il giorno cruciale – quello in cui sostanzialmente si perse l’occasione di contrastare la pandemia – fu il “28 febbraio 2020” perché invece che alle zone rosse, come quella da applicare in Val Seriana, il Comitato tecnico scientifico si affidò a “misure proporzionali” per combattere un “virus che si propagava esponenzialmente”, sostiene la consulenza.
Le “valutazioni e le decisioni del Cts prese il 28 febbraio”, si legge, “avranno conseguenze devastanti nel controllo dell’epidemia in Italia che si trova da quel momento in balia all’improvvisazione”. Il piano pandemico nazionale “non era stato attivato il 5 gennaio”, giorno dell’allarme lanciato dall’Oms, e poi il 28 febbraio il Cts “abbandonava anche le indicazioni del Piano Covid di risposta all’emergenza preparato dalla fondazione Kessler”. Adottò, invece, come risulta dagli atti acquisiti dagli inquirenti, una linea “ispirata a un principio di proporzionalità”. Come se, scrive Crisanti, “prima di estendere le misure previste per la zona rossa si dovesse realizzare uno scenario ancora peggiore di quello che aveva indotto il Cts e il ministro Speranza a secretare il Piano Covid”. Nella relazione di Crisanti anche considerazioni di questo tipo: “Con questi livelli di progressione e le conoscenze di matematica impartite alle nostre scuole medie si sarebbe potuto facilmente calcolare che nel giro di due giorni i casi avrebbero raggiunto quota mille” in Lombardia, dopo il 28 febbraio.