Parteggiando per colui che ha scritto la Storia del cinema americano e non solo, vorremmo che la benedetta statuetta d’oro tornasse ancora sugli scaffali di Steven Spielberg. Tra i nominati il britannico Martin McDonagh in The Banshees of Inisherin, lo svedese Ruben Östlund per Triangle of Sadnes e Todd Field per il suo TÁR
Chissà se Steven Spielberg era sincero durante la sua conferenza stampa alla recente Berlinale quando celebrò il “genio” messo in scena da The Daniels nel loro blasonato Everything Everywhere All at Once. Ma Zio Steven è tutt’altro che ingenuo: del resto, chi meglio di lui conosce i meccanismi (perversi?) di Hollywood e dello show-biz per dubitare che la roboante campagna promozionale per EEAO (acronimo ormai noto a tutti per il film dei Daniels) li porterà diritti e diretti a guadagnarsi parecchi Oscar incluso quello per la miglior regia? Vorremmo essere smentiti, certo. Parteggiando per colui che ha scritto la Storia del cinema americano e non solo, vorremmo che la benedetta statuetta d’oro tornasse ancora sugli scaffali del cineasta (ne ha già vinti 4, ma mai abbastanza…) che ogni generazione da 52 anni in ogni angolo del pianeta ha fatto sognare e innamorare della Settima Arte.
Al netto della considerazione, non banale, che il suo The Fabelmans è un film enorme. Ma numeri e precedenti premiazioni d’annata, quelli che il settore indica nella “Road to Oscars”, dicono altro. Dicono che The Fabelmans ha vinto “solo” un Golden Globe per la regia mentre i 35enni Daniel Kwan and Daniel Scheinert – The Daniels, appunto – si sono pregustati i trionfi al Dolby Theater la notte del 12 marzo grazie alla vittoria al DGA Awards, quello tra i riconoscimenti più significativo per i filmmakers perché decretato proprio dalla Directors’ Guild of America, la corporazione dei registi d’America. Variety, la bibbia del cinema, non ha dubbi sui favori che l’Academy esibirà al giovane “duo” l’Oscar per la regia.
Peccato, perché nella cinquina dei candidati, fatta forse eccezione per Todd Field per il suo TÁR in cui a brillare è essenzialmente la sempre eccezionale Cate Blanchett, la regia dei Daniels sembra la più “debole”, e le virgolette stanno proprio a sottolineare il paradosso. Perché EEAO è più roboante che ben congegnato registicamente, e proprio il pubblico più giovane abituato ai ritmi forsennati e a mutevoli scenari di spaziotempo, versi & metaversi dei videogame, potrebbe scovare il trucchetto dei Daniels. Insomma EEAO è un lavoro visivamente scoppiettante ma niente di più, anzi, parecchio noioso e ripetitivo, dove una sola idea viene prolungata per un tempo che (appare) infinito.
Parecchio più raffinati, coraggiosi e incisivi sono gli sguardi del britannico Martin McDonagh per The Banshees of Inisherin (Gli spiriti dell’isola), un dramedy che racconta l’inspiegabile fine di un’amicizia lunga una vita nell’Irlanda alla fine della guerra civile nel 1923, e dell’ultimo vincitore della Palma d’oro a Cannes (la sua seconda!), lo svedese Ruben Östlund per Triangle of Sadness, una tragicommedia politico-grottesca sui vizi della borghesia. Ma purtroppo è proprio la loro “raffinatezza” a mutare in punto debole: qui non siamo a Venezia o Cannes (dove rispettivamente i due film concorrevano e vi hanno vinto premi, appunto), siamo nella mecca sempre meno artistica e sempre più money-driven di un cinema che sta tentando di sopravvivere alle serie tv. Difficilmente, come si è detto per Spielberg, questi potranno avere la meglio nella categoria benché autori di film impeccabili dal punto di vista della regia. Essere smentiti, comunque, resta la speranza più accesa.