È in chiaroscuro, a poco più di un anno dal varo definitivo, il bilancio della riforma spagnola del mercato del lavoro mirata a ridurre la precarietà. Se i contratti a termine veri e propri sono crollati, in parallelo è esploso il ricorso a quelli stabili ma “discontinui“, che prevedono periodi di inattività durante i quali si riceve solo la disoccupazione. E hanno raggiunto livelli senza precedenti i licenziamenti di lavoratori con quel tipo di contratto per mancato superamento del periodo di prova. Di fatto, secondo diversi analisti, il precariato ha solo cambiato forma. Dall’analisi dei dati emergono diverse lezioni interessanti anche per il dibattito politico italiano, visto che il governo Meloni si appresta ad affossare il decreto Dignità (già scardinato durante la pandemia) mentre dall’opposizione la neo leader del Pd Elly Schlein predica la necessità di limitare il ricorso ai contratti a tempo determinato “come hanno fatto in Spagna”. Dove come è noto è anche in vigore il salario minimo caro al M5s e sostenuto anche da Schlein: il governo Sanchez lo ha appena elevato a 1080 euro al mese per 14 mensilità.
La riforma e il nuovo anello debole – Il real decreto del dicembre 2021, che ha avuto il via libera del Parlamento con la maggioranza di un solo voto nel febbraio 2022, aveva l’obiettivo dichiarato di abbattere la quota di contratti a termine che aveva raggiunto il 30% del totale. Una necessità concordata con Bruxelles e inserita nel Plan de recuperacion e riforma, il Pnrr spagnolo, per “promuovere una crescita inclusiva e sostenibile dal punto di vista economico e sociale”. Il tempo indeterminato da allora è la forma standard del rapporto di lavoro. Le uniche eccezioni ammesse sono la sostituzione di altri lavoratori e le “circostanze legate alla produzione”, cioè esigenze produttive imprevedibili: in questo secondo caso è possibile assumere a termine per un periodo fino a 6 mesi che sale a un anno se ci sono accordi collettivi di settore. Per i datori di lavoro c’è però la possibilità di ricorrere ai contratti a tempo indeterminato discontinui in caso di lavori stagionali, “altre ipotesi di temporaneità” o prestazioni intermittenti ma con alcuni periodi di esecuzione certa ogni anno. Questi lavoratori maturano l’anzianità di servizio e hanno una corsia preferenziale per la stabilizzazione, ma attraversano fasi di inattività durante le quali vivono con l’indennità di disoccupazione.
“Non è stata la controriforma rispetto a quella del governo Rajoy che alcuni settori politici si aspettavano”, commenta Emanuele Dagnino, ricercatore di Diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia. “Per esempio la disciplina dei licenziamenti“, che sono liberi a fronte di una piccola indennità di fine rapporto e senza obbligo di reintegro nel caso siano giudicati illegittimi, “non è stata toccata. Il decreto è stato ampiamente dettato dalla Ue e concordato con le parti sociali: alla fine ci si è concentrati sulle restrizioni al tempo determinato e su questo l’inversione di tendenza si vede. Resta da capire se la nuova disciplina stia provocando distorsioni sull’uso del contratto discontinuo o di altre discipline (come quella relativa al periodo di prova), come reazione alle nuove rigidità”.
Gli ultimi dati ufficiali – Lo scorso anno gli occupati sono saliti per la prima volta oltre quota 20 milioni. Gli ultimi dati del Servizio pubblico per l’occupazione (Sepe), che fa capo al ministero del Lavoro, mostrano che a febbraio 2023 la percentuale di occupati con contratto a tempo determinato è scesa al minimo storico del 14%. Su un totale di poco più di 1 milione di contratti registrati nel mese, 493mila (in lieve calo dai 530mila di gennaio) sono stabili: il 45,46% del totale, in aumento del 55% su un anno prima. Ma di che “stabilità” si tratta? I rapporti indeterminati a tempo pieno ammontano a 230mila, mentre 121mila sono part time e 141.305 “a tempo indeterminato discontinui”. In parallelo con l’abolizione dei rapporti “para obra o servicio” (a progetto), e dunque il crollo del precariato “in chiaro”, questi ultimi sono letteralmente esplosi: +250% anno su anno. A gennaio l’aumento tendenziale aveva toccato il +660%. Rimangono poi oltre 591mila, il 54% del totale (ma in continua discesa, -47% anno su anno) i contratti a termine, per la maggior parte giustificati con “circostanze legate alla produzione”.
Il nodo dei licenziamenti e dei bassi salari – L’ultimo Osservatorio trimestrale indipendente del mercato del lavoro, elaborato dalla Fundación de Estudios de Economía Aplicada (Fedea) con l’istituto EY-Sagardoy, BBVA Research e EY Insights, rileva che i lavori intermittenti in fase di inattività andrebbero contati tra i disoccupati, cosa che ne aumenterebbe il numero a oltre 3,5 milioni contro i 2,9 milioni ufficiali (in forte calo dai 3,1 milioni di gennaio 2022). Rafael Doménech, uno dei coordinatori, ha poi fatto notare che al momento è impossibile dire se chi in precedenza aveva un contratto precario e ora ne ha uno a tempo indeterminato discontinuo abbia visto aumentare le ore effettive lavorate e di conseguenza la retribuzione. Stando ai dati della previdenza sociale, nel 2022 il reddito medio dei tempi indeterminati discontinui è stato di soli 1.174 euro al mese per 12 mensilità: sotto la nuova soglia del salario minimo. Florentino Felgueroso, della Fedea, è arrivato alla conclusione che il calo del lavoro a termine “non significa che la precarietà si sia ridotta”.
C’è anche un altro problema: da quando è entrata in vigore la riforma i licenziamenti di lavoratori a tempo indeterminato sono saliti a livelli record, superiori a quelli del 2020. Il quotidiano El Economista, analizzando i dati, ha evidenziato in particolare un “boom senza precedenti” dei licenziamenti per mancato superamento del periodo di prova. Lo scorso anno sono stati oltre 938mila di cui 568.731 relativi appunto a rapporti “indefinidos”: questi ultimi sono aumentati del 620%. Si tratta insomma di impieghi, nei fatti, tutt’altro che stabili.