Le parole di Mousavi sono significative per diversi motivi. Il primo, l'ex primo ministro si trova infatti da 13 anni agli arresti domiciliari in compagnia della moglie Zahra Rahnavard con l'accusa di aver guidato la grande protesta dell'Onda Verde nel 2009. Inoltre, rappresentano poi un segnale di vita del declinante movimento riformista e allo stesso tempo la conferma che quest'ultimo abbia esalato i suoi ultimi respiri
Mentre le proteste in Iran sembrano vivere un momento di parziale “stanca” rispetto al loro picco di intensità raggiunto lo scorso dicembre, a tenere banco in questi giorni sono le parole di Mir Hossein Mousavi, ex primo ministro della Repubblica Islamica negli Anni 80, nonché candidato alle discusse elezioni presidenziali del 2009. L’80enne politico, nativo dell’Azerbaijan orientale e storica figura del campo riformista, si è espresso sulle colonne del sito web Kalima chiedendo alle autorità “una trasformazione fondamentale, il cui profilo è indicato dal puro movimento Donna Vita Libertà”. Parole nette, declinate all’interno di una road map in tre fasi: l’indizione di un referendum sulla necessità di cambiare o addirittura riscrivere la Costituzione; la formazione, in caso di esito positivo del referendum, di una Assemblea costituente composta da “veri rappresentanti della Nazione”, attraverso una votazione libera; un secondo referendum per approvare la eventuale bozza di una nuova Carta costituzionale per dar vita ad un regime basato sullo Stato di diritto che “rispetti i diritti umani e la volontà popolare“.
Le parole di Mousavi sono significative per diversi motivi. Il primo è legato alla sua condizione: l’ex primo ministro si trova infatti da 13 anni agli arresti domiciliari in compagnia della moglie Zahra Rahnavard con l’accusa di aver guidato la grande protesta dell’Onda Verde nel 2009, all’indomani della rielezione di Mahmoud Ahmadinejad, contro il quale si era candidato. Il 2009 rappresenta forse il primo momento di spaccatura tra la società civile e il regime: l’Onda Verde nacque infatti con l’intento di segnalare l’emersione di un disincanto, dovuto alla convinzione da parte dell’elettorato riformista di clamorosi brogli elettorali nella rielezione di Ahmadinejad tali da svuotare di senso un processo elettorale che fino a quel momento aveva testimoniato mediamente un’altissima affluenza.
In quei travagliati mesi Mousavi aveva assunto di fatto il ruolo del martire, pagando in prima persona i tumulti di piazza, che portarono anche all’arresto di Mehdi Karroubi, chierico sciita, più volte speaker del Parlamento e fondatore del movimento riformista Società dei chierici militanti, e allo stesso tempo venendo accusato da una parte della popolazione di non aver preso posizione contro la Guida Suprema Ali Khamenei, considerato il “burattinaio” dei brogli che avevano per la prima volta minato la credibilità del processo elettorale e la percezione di relativa democraticità del sistema stesso. Tra Mousavi e Khamenei esiste un grado di parentela: la nonna del primo è la zia paterna del secondo. Non che la parentela, in Iran, segnali necessariamente vicinanza, anzi: sono numerosi i casi di ostilità intra-familiare nel Paese, non ultima quella tra lo stesso Ali Khamenei e suo fratello Hadi, anch’egli riformista.
Le dichiarazioni di Mousavi rappresentano poi un segnale di vita del declinante movimento riformista e allo stesso tempo la conferma che quest’ultimo abbia esalato i suoi ultimi respiri. Il politico deve la sua ascesa e la sua credibilità alle prime fasi della rivoluzione: ammiratore del sociologo Ali Shariati e di Che Guevara, con l’avvicinarsi della caduta dello Shah abbandona gradualmente le posizioni di sinistra per diventare uno dei principali consiglieri dell’ayatollah Khomeini, che nel 1979 lo mette a capo del Consiglio della Rivoluzione islamica. Questa sua vicinanza al fondatore della rivoluzione, poi rafforzatasi durante il suo mandato come primo ministro (carica poi abolita, anche grazie all’opera di lobbying contro di lui dello stesso Khamenei), aveva nel tempo fatto fermentare l’ostilità nei suoi confronti proprio della Guida Suprema, presidente della Repubblica durante il suo premierato.
Con la morte di Khomeini e il conseguente discusso iter che aveva portato alla improvvisa nomina da parte dell’Assemblea degli Esperti di Khamenei come suo successore, Mousavi entra nel campo riformista di Mohammad Khatami, eletto poi presidente nel 1997. I riformisti in Iran sono storicamente portatori dell’idea che il sistema teorizzato da Khomeini sia giusto ma riformabile dall’interno e si oppongono ai principalisti, noti in occidente come “conservatori”. La forza e la popolarità del movimento riformista fino al 2009 risiedeva proprio nel fatto che numerosi suoi rappresentanti potevano vantare legami diretti e spesso intimi con la figura di Khomeini e allo stesso tempo nella capacità di intercettare le istanze delle nuove generazioni, nate dopo il 1979, che non avevano vissuto in prima persona il lungo conflitto con l’Iraq che aveva contribuito a un forte irrigidimento del regime.
“La gente ha il diritto di apportare revisioni fondamentali per superare le crisi e aprire la strada alla libertà, alla giustizia, alla democrazia e allo sviluppo – ha aggiunto nei giorni scorsi Mousavi – E il rifiuto di fare il minimo passo verso i diritti dei cittadini come definiti nella costituzione ha scoraggiato la comunità dal portare avanti le riforme”. Frasi che segnano appunto la certificazione del fallimento riformista in cui Mousavi ha continuato a credere in questi anni di arresti domiciliari, ma le cui istanze appaiono a molti, oggi, quasi anacronistiche, pur segnalando una decisa uscita dai “binari rivoluzionari” nei quali fino a dieci anni fa era ancorato.
Tuttavia, anche in questo caso, la sensazione è che il leader politico abbia assunto una posizione del tutto sconveniente. Non sono tardate ad arrivare, infatti, le accuse da parte del regime stesso. L’agenzia stampa Mizan, legata al potere giudiziario, ha immediatamente accusato Mousavi di “ricalcare pienamente” la retorica e le posizioni del gruppo d’opposizione all’estero dei Mojahedin e Khalq (Mek), considerato una organizzazione terroristica da Teheran. Mizan si è spinta anche oltre, citando “informazioni credibili” secondo cui Ardeshir Amir Arjomand, attivista residente a Parigi direttore del citato sito web Kalima e consigliere personale di Mousavi stesso, lo avrebbe spinto ad “accreditarsi” come leader delle proteste anti-sistema dopo esser stato imbeccato da suo fratello Bassem, che sarebbe membro di uno degli uffici del Mek a Strasburgo. Questo mentre una serie di politici conservatori, come Mohammad Reza Bahonar, hanno iniziato a contraddire la tendenza del regime a ridimensionare la portata delle proteste, definite “più serie delle precedenti e rivelatrici di problemi economici, politici, culturali e diplomatici” nel Paese, tanto da richiedere la nascita di una “seconda Repubblica”, pur con presupposti diversi da quelli immaginati da Mousavi.
D’altra parte, le posizioni di potere di ricoperte da Mousavi negli anni delle “purghe” (1988) dei dissidenti, nonché la sua declinante influenza, sembrano precludergli un livello accettabile di ascolto da parte della ormai polarizzata società civile e anche degli iraniani all’estero. L’attivista Masih Alinejad, così come il figlio dell’ultimo Shah, hanno bollato le dichiarazioni di Mousavi con la più classica delle formule “too little too late“, troppo poco e troppo tardi: la prima insistendo sulla “irrilevante differenza tra conservatori e riformisti che stanno abbandonando la nave che affonda e ignorano il fatto che in piazza la gente insorga egualmente contro gli uni e gli altri”, il secondo mettendo in dubbio la genuinità stessa delle sue parole, pur invocando una politica “delle porte aperte, che sia inclusiva di tutte le anime del Paese”.
Intervistato da Middle East Eye, un giornalista iraniano il cui nome non è stato reso noto per ragioni di sicurezza ha commentato le parole del politico definendolo “coerente con le sue promesse al popolo, che gli hanno fatto pagare un duro prezzo e lo hanno costretto per 13 anni agli arresti domiciliari”. Il cronista ha poi aggiunto che Mousavi si sarebbe guadagnato il rispetto del popolo proprio per via della sua lunga detenzione domiciliare, chiedendo poi retoricamente a figure come l’erede Pahlavi o l’attivista Hamed Esmaeilion se “abbiano il coraggio di venire in Iran e pagare un prezzo per quel che dicono o se siano dei militanti solo all’interno della zona di comfort delle loro residenze negli Stati Uniti o in Canada“. L’impressione, ha aggiunto il reporter, è che “gli attivisti che dall’estero promuovono il regime change sembrano preoccupati che Mir Hossein Mousavi possa rubare loro la scena e ciò li ha spinti ad associarsi ancor più a Washington, offrendo alla società iraniana nient’altro che inutili slogan”.
Forse non a caso, anzi proprio per la natura in parte settaria delle repressioni messe in moto dal regime, a raccogliere gli appelli di Mousavi, per ora, non ci sono tanto i suoi “compagni di partito” come l’ex presidente Khatami (il quale ha parzialmente rigettato le sue proposte, insistendo su un ritorno alla Costituzione vigente), ma gli attivisti ed i leader religiosi sunniti, come Abdolhamid Ismaelzaahi, noto come il mowlavi, imam della moschea Makki di Zahedan. All’ultima preghiera del venerdì, durante la sua khutba, il mowlavi si è riferito direttamente alle parole dell’ex leader dell’Onda Verde: “Con le sue recenti dichiarazioni, Mousavi ha dimostrato di aver capito le realtà della nostra società. È tempo per i nostri politici e i nostri religiosi di pensare a un modo per salvare il Paese, riconoscendo i dati di fatto”.