L’hub del gas del Mediterraneo orientale si chiama Israele, con tutto quello che ne consegue a livello di tenuta degli equilibri geopolitici di una delle aree più instabili del Pianeta. Una delle infrastrutture più strategiche è il cosiddetto “Gasdotto della Pace”, un serpentone che dal terminal egiziano di Al Arish dopo un percorso sottomarino di 90 chilometri e bypassando la Striscia di Gaza termina la sua corsa ad Ashkelon. È attivo dal 2008 e permette in un primo momento a Tel Aviv di importare gas dall’Egitto. Nel 2013 la scoperta degli enormi giacimenti di Leviathan e Tamar al largo di Israele e di Aphrodite nelle acque cipriote apre anche per questi paesi la possibilità di divenire esportatori di gas, sia nella regione che verso il mercato europeo e globale. Né Cipro, né Israele hanno però le infrastrutture dell’Egitto. Si valuta così la costruzione del mega gasdotto Eastmed, che passerebbe anche da Cipro per poi arrivare in Italia, in Puglia, e la realizzazione di pipeline sottomarine per collegare i giacimenti offshore con la Turchia o con l’Egitto. Ma la firma di un accordo per la vendita del gas israeliano a una società egiziana apre a uno scenario nuovo: il preesistente gasdotto Arish-Ashkelon viene adattato per permettere a Israele di iniziare a esportare gas verso l’Egitto. Il “gasdotto della Pace” diviene così un’opera di fondamentale importanza per tutta la regione.
Intanto si valuta il da farsi con l’ambizioso progetto Eastmed, che trova il gradimento di paesi di passaggio e approdo quali Grecia e Italia ma non della Turchia, che si vedrebbe esclusa dalla partita. Gli Stati Uniti hanno espresso parere negativo su Eastmed, mentre Tel Aviv punterebbe sul trasporto tramite liquefazione del gas, anche se non è ufficialmente uscita dal progetto. In attesa di novità, Israele si afferma quale nuovo hub del gas con i suoi flussi di import e export, un po’ come vorrebbe fare dell’Italia il governo Meloni. Nel frattempo da più parti lo sfruttamento della riserva fossile viene visto come un elemento di ulteriore rafforzamento della repressione nei confronti del popolo palestinese. Uno status quo che Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani definiscono come un vero e proprio regime di apartheid. Nel frattempo, denunciano gli attivisti locali, Israele si sta guardando bene dal dare il suo contributo per risolvere la crisi climatica. Dall’inizio della guerra le mega centrali di Ashkelon hanno ripreso a utilizzare olio combustibile e carbone. L’inquinamento nel Paese è a livelli delle peggiori zone di sacrificio, ossia delle aree della Cisgiordania che Israele sfrutta per lo smaltimento di rifiuti pericolosi, anche se nelle zone residenziali e nelle città fanno bella mostra di sé pannelli solari che raccontano di una sostenibilità e di un’attenzione per l’ambiente solo di facciata.
di Filippo Taglieri/ ReCommon