In Veneto ci sono ancora migliaia di cittadini che, a distanza di dieci anni dalla scoperta dell’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche, sono privi dell’allacciamento all’acquedotto. Per questo sono costretti ad acquistare l’acqua in bottiglia per uso alimentare, visto che quella dei pozzi è imbevibile, mentre le coltivazioni di orti e terreni producono frutta e verdura con tassi altissimi di Pfas. La denuncia viene da Greenpeace che sta monitorando l’evoluzione di una situazione allarmante, al di là delle assicurazioni ufficiali.

“Vivono tutti in Zona Rosa, ovvero nei 30 Comuni delle province di Vicenza, Padova e Verona maggiormente interessate – spiega Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace -. Stando agli ultimi dati ufficiali disponibili della Regione Veneto, sarebbero circa 18mila i residenti non allacciati alla rete. Nonostante la contaminazione sia nota da anni, della bonifica del sito di Miteni (a Trissino, in provincia di Vicenza, ndr) si sono perse le tracce, così come di un piano di riconversione industriale per azzerare tutte le fonti inquinanti”. E aggiunge: “L’inerzia istituzionale prosegue anche sul fronte della sicurezza degli alimenti: come è possibile che non abbiamo ancora un quadro chiaro ed esaustivo sulla contaminazione dei prodotti di origine animale e vegetale provenienti dalle zone inquinate?”.

Un caso-simbolo è quello di Antonietta Gaspari, che vive in via Lore a Lonigo (Vicenza). “I tombini per l’allacciamento idrico sono a 200 metri dalla mia casa, ma dal 2014 non è accaduto nulla”. La donna, figlia di agricoltori, vive in un complesso di cinque case. I tombini dell’acquedotto collegano due grossi allevamenti con la rete cittadina, non le case, mentre per lei allacciarsi è una necessità, a causa dei Pfas. All’epoca erano stati trovati nella rete idrica fino a 6 mila nanogrammi per litro di Pfoa (acido perfluoroottanoico). Poi l’acqua era tornata potabile grazie a lavori di derivazione e filtri. Ma chi non aveva l’acquedotto, come Antonietta, e ricorreva ai propri pozzi? Lei e le cugine hanno cominciato a comperare bancali di acqua in bottiglia. “Hanno fatto gli esami del pozzo, ci hanno detto che arrivava a 5mila nanogrammi per litro solo di Pfoa e ci hanno consigliato di allacciarci alla rete idrica a spese nostre. Lo abbiamo chiesto, ci è stato risposto che l’allacciamento è un lavoro pubblico da far fare alla società idrica. È dal 2015 che siamo in attesa”.

“Lo sa che le analisi di mio figlio e mio nipote hanno riscontrato livelli di Pfas superiori ai 500 nanogrammi per millilitro? – spiega Antonietta – Il limite è di 8 nanogrammi per millilitro, sessantacinque volte inferiore!”. La Regione prospettò un progetto di plasmaferesi, ma fu bocciato dall’Istituto Superiore di Sanità e sostituito da analisi specialistiche: “Il referto era accompagnato da una lettera in cui si confermava la presa in carico del suo stato di salute, che alla fine non è stato altro che un’ulteriore visita specialistica, ma nulla di più”. Con il passare del tempo gli allevamenti di animali hanno avuto l’allacciamento alla rete, non le famiglie. Adesso sono stati inseriti nel piano di allacciamenti 2022-23, ma i tubi non sono ancora collegati.

Nel frattempo Antonietta ha scoperto di avere una concentrazione nel sangue pari a 340 nanogrammi per millilitro, 40 volte superiore alla soglia. La sorella ha 1090 nanogrammi. Il figlio di Antonietta ha visto le concentrazioni crescere dai 522 nanogrammi del 2017 ai 740 nanogrammi per millilitro del 2021, mentre avrebbero dovuto diminuire. Di questo caso e di quello di altri 400 giovani maschi di età compresa tra i 18 e i 36 anni si sta occupando l’ematologo Francesco Bertola dell’Isde, l’associazione dei medici democratici che sta conducendo uno studio indipendente.

Intanto Greenpeace ha fatto analizzare acqua e terreni vicini alla casa di Antonietta. “Sono stati evidenziati 3700 nanogrammi per l’acqua di pozzo e una presenza totale di Pfas superiore ai 6200 nanogrammi per chilo nel terreno. Le concentrazioni indicano una contaminazione ambientale diffusa e storica, che continua a causa dell’uso di acqua contaminata” spiega la dottoressa Sara Valsecchi, ricercatrice del Consiglio Nazionale delle Ricerche. “Poiché la famiglia beve acqua in bottiglia da molti anni significa che è esposta a queste sostanze in un altro modo: calpestano Pfas, probabilmente li respirano con la polvere e quando c’è nebbia, e sicuramente li mangiano dai prodotti del loro orto”.

Cristina Guarda, consigliere regionale, sottolinea che “è stato fatto emergere proprio da Europa Verde il dato incontestabile di circa 18mila residenti nell’area rossa ancora privi dell’allacciamento sicuro alla rete acquedottistica, mentre la bonifica tarda ad arrivare. Le priorità della Giunta del Veneto e del Governo – ha aggiunto – sembrano essere altre”. Guarda ricorda poi che “con motivazioni del tutto formali, a dicembre la maggioranza regionale leghista bocciò la mia proposta per inserire nella programmazione economico-finanziaria regionale l’impegno a sviluppare prioritariamente l’allacciamento per consentire ai residenti nelle aree contaminate da Pfas e non ancora collegati alla rete acquedottistica di poter fruire di acqua filtrata, più sicura. I cittadini vengono lasciati soli e ad alcuni sono stati chiesti migliaia di euro per il collegamento all’acquedotto”.

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