È sotto gli occhi di tutti il fiume mediatico dei messaggi intercorsi, all’inizio del 2020, fra le autorità preposte alla lotta al Covid e quello dei messaggi scambiati da Matteo Messina Denaro con altre persone. Molti non ci fanno caso, ma quei messaggi (che contengono soprattutto conversazioni private non utili alle indagini) sono in realtà atti processuali acquisiti dalle procure di Bergamo e Palermo. Il codice etico del giornalista è “se ho una notizia, la pubblico”, mentre la mentalità del cittadino è “voglio sapere cosa si dicono in privato le persone che ci governano”. Era necessario diffondere i messaggi del boss in cui lancia giudizi atroci nei confronti della figlia Lorenza perché dissociatasi dalla mafia? Cosa avrà sofferto la ragazza nell’ascoltare le considerazioni che il padre faceva nei suoi confronti?

Atti di indagine complessi e riservati sono finiti sui rotocalchi delle sale d’attesa dei dentisti. Come si intuisce, il rapporto fra giustizia e comunicazione è particolarmente delicato e per comprenderlo occorre unire vari puntini. Negli ultimi anni è diffuso il principio della “percezione della sicurezza” che si concretizza nello spargere nella cittadinanza la convinzione che lo Stato garantisce al meglio la sicurezza collettiva. È in sostanza un’operazione di immagine, che nei fatti ha però prodotto il risultato opposto perché in realtà ciò che si è diffusa è una forte “percezione di insicurezza”. Oggi la gente ha più paura di venti o trenta anni fa, nonostante le statistiche ci dicano che nel Paese i delitti sono diminuiti (a volte sensibilmente) rispetto al passato.

Ciò è dovuto a una serie di motivi. Da un lato i tg e i media italiani danno ai fatti di cronaca nera uno spazio superiore rispetto agli omologhi di altre importanti nazioni europee, quali la Germania e l’Inghilterra. Dall’altro lato, la straordinaria velocità dei social e degli smartphone, entrambi posseduti dalla maggior parte dell’umanità, generano un isterico flusso di notizie che, come una valanga, si gonfia a ogni passaggio informatico. Non stupisce, perciò, che oggi il cittadino si senta terrorizzato.

Un’altra causa dell’attuale percezione di insicurezza sono i processi mediatici. Ogni fatto di sangue diventa il pretesto per realizzare in studio accattivanti ricostruzioni di scene del crimine con la partecipazione di criminologi e giornalisti che in un’ora e mezza danno al pubblico “il colpevole”. Cosa in realtà impossibile, in quanto l’unico luogo preposto a questo fine è l’aula di giustizia, con la sua montagna di atti che ovviamente non sono in possesso degli autori dei talk show investigativi. Il risultato è che la massa di spettatori si convince che magistrati e investigatori italiani sono degli inetti (la considerazione tipo è: “Gli americani, quelli sì che fanno presto e bene!”), perché “che ci voleva a capire che il colpevole era Tizio, come hanno fatto i superesperti in studio?” Tutto questo contribuisce a generare sfiducia nelle istituzioni, un sentimento figlio della dea audience e immotivato.

Per tornare alla diffusione dei messaggi del periodo Covid e di quelli di Messina Denaro, molti non sanno che una recente normativa prevede che il procuratore della Repubblica possa – attraverso interviste, comunicati o conferenze stampa – divulgare dati relativi ai processi “solo” in caso di “stretta necessità investigativa” o per “specifiche ragioni di interesse pubblico” e se lo fa è tenuto a motivare espressamente il provvedimento. Oggi infatti non sono più diffusi nomi e foto degli arrestati se il procuratore della Repubblica non lo dispone con una congrua motivazione.

Ma allora come mai le frasi di Messina Denaro e le chat fra virologi sono di dominio pubblico? Stentiamo a credere che i procuratori di Palermo e Bergamo abbiano potuto disporre la diffusione di questi dati, che riguardano conversazioni peraltro neanche utili alle indagini. Evidentemente sono atti esfiltrati grazie a talpe infilate nel mondo giudiziario. La conseguenza è che i nomi degli arrestati non possono essere rivelati, ma le volgarità fra virologi e politici e le frasi intime di boss mafiosi sono di dominio pubblico. Qualcosa non funziona, è chiaro.

Infine c’è il ruolo della politica. Talvolta questa entra nei processi mediatici per privilegiare l’una o l’altra pista politicamente più utile, se non addirittura per sbeffeggiare la magistratura. Ma non solo, perché spesso la politica si infila nelle campagne elettorali generando nella cittadinanza paure inesistenti, cosa che poi consente di dire agli elettori: “Tranquilli, se ci votate vi difendiamo noi.” Cosa falsa, naturalmente, ma la gente – affamata di sicurezza – ci casca.

Se uniamo tutti questi puntini, ci rendiamo conto di come sia inevitabile che la gente viva nel timore e nutra sfiducia nelle istituzioni. La considerazione – amara da un lato, grottesca dall’altro – è che spesso sono proprio le stesse istituzioni a fare il possibile per ingenerare nei cittadini questa sfiducia, una situazione schizoide figlia di un mondo che viaggia a velocità supersonica e in cui l’unico credo è piacere agli altri ed essere guardati a ogni costo.

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