“Vediamo gente che ha bisogno di lavorare, ma non ha la voglia né l’umiltà per farlo. Proprio per questo sono fermamente convinta che si debba in qualche modo generare fame. […] Il lavoro c’è. Bisogna solo avere fame. Se uno non l’ha dentro, allora la si induce”.
“Generare fame” per costringere al lavoro. La linea che Viviana Varese, proprietaria di un ristorante una stella Michelin a Milano, esprimeva con chiarezza cristallina al Corriere della Sera è oggi perseguita dal governo Meloni con la sostituzione, a partire da settembre, del Mia (Misura di Inclusione Attiva) al reddito di cittadinanza.
“Generare fame”: il nuovo sostegno riduce sia la platea di beneficiari che il periodo che gli importi di cui è possibile usufruire. Il “Mia”, stando alle simulazioni effettuate, escluderà circa un terzo degli attuali beneficiari del reddito di cittadinanza: la soglia Isee sotto cui si potrà percepire, infatti, scende dai 9.360 € ai 7.200 € annui. Se è vero che già il reddito di cittadinanza non raggiungeva tutte le persone in stato di povertà – secondo Caritas arrivava “solo” al 44% delle persone in povertà assoluta – col “Mia” la situazione peggiorerà.
Ma c’è di più. Il governo Meloni, infatti, taglia gli importi. Se è vero che dovrebbero rimanere i 500 € per i “non occupabili” – ma con un enorme punto interrogativo sull’integrazione di 280 € di cui si poteva fino a ora godere per le spese di affitto – il sostegno mensile per gli “occupabili” crolla: da 500 a 375 €. Il governo crede che con 500 € si possa vivere in questo Paese? La risposta, se pensiamo che anche nell’esecutivo ci siano persone senzienti, dev’essere necessariamente no.
Allora perché ridurre l’importo? Per fare cassa, dicono molti. Tra taglio della platea e taglio dell’assegno, infatti, si calcolano futuri risparmi nell’ordine di circa 3 miliardi di euro all’anno sugli 8 miliardi totali di costo del reddito di cittadinanza. Una spiegazione, però, parziale. Perché mette in rilievo solo la dimensione economica della riforma e non, invece, quella politica e culturale. Che è la più pesante e indica come i governi entrino a piè pari nei rapporti tra le classi sociali del nostro Paese.
La verità, infatti, è che con 375 € al mese, con l’ulteriore possibile previsione di un décalage – cioè di un taglio dell’importo dopo un certo periodo di tempo – il governo consegna alle imprese un’arma potentissima: riduce cioè il potere contrattuale ai disoccupati che da settembre, nei colloqui di lavoro, avranno più difficoltà a rifiutare i salari da fame. Col taglio degli assegni il governo “induce” quella fame invocata dalle tante Viviana Varese che da quattro anni si lamentano di non riuscire a trovare schiavi da assumere. E che oggi staranno organizzando dei party assai glamour al motto di “è finita la pacchia!”.
Perché è questo il sostrato culturale su cui riposa il nuovo “Mia”. Se sei senza lavoro è colpa tua, non di un sistema che genera disoccupazione e che si fonda strutturalmente su sfruttamento, bassi salari e precarietà. Anzi, non ti chiamiamo nemmeno disoccupato, ma “occupabile” (e ti distinguo dai “non occupabili” che avranno ancora diritto a 500 € mensili), proprio a sottolineare la tua responsabilità individuale per la tua condizione di senza lavoro: avresti tutte le possibilità di avercelo, un impiego, e invece non ce l’hai perché sei pigro, fannullone, parassita e negli ultimi anni drogato da quel “metadone di Stato” (Meloni dixit) del reddito di cittadinanza.
È l’ideologia del “volere e potere”, che occulta i rapporti di potere e di forza all’interno della società, che colpevolizza le vittime ed esalta i vincitori: “non disturbare chi vuole fare”. Anche se si tratta di evasori fiscali, di sfruttatori del lavoro nero o grigio.
In sintesi, “Mia” approfondisce i tratti di costrizione e colpevolizzazione già presenti nella vecchia misura. Più di ieri, i poveri e i disoccupati devono essere costretti ad accettare qualunque condizione di lavoro. Devono essere spacciati per parassiti, così da separarli dai loro potenziali alleati – chi un lavoro, magari povero, già ce l’ha – e su di loro deve ricadere la “colpa” della loro stessa condizione (in una sorta di calvinismo contra pauperes) e dei problemi collettivi.
Il cambio di passo, ideologico prima ancora che concreto, spiega anche il nuovo nome: dopo anni di guerra al reddito di cittadinanza, dopo l’incessante promessa di eliminarlo, non bastavano modifiche agli articoli della legge che ha introdotto il RdC. Di questo strumento non deve rimanere che una labile – e possibilmente nefasta – memoria. L’eliminazione finanche nominale del reddito è lo scalpo che le destre al governo devono poter esporre dinanzi alle Viviana Varese che affollano il mondo imprenditoriale nostrano.
Sfrondando però la propaganda di Meloni & Co., la verità è che il governo non ha potuto eliminare del tutto il “reddito di delinquenza” (copyright delle destre), il “reddito di divananza” (copyright dell’ex segretario Pd). Lo strumento rimane, seppur sotto altro nome, ridotto, ristretto e criminalizzato. Il governo, sebbene abbia il sostegno di un’ampia maggioranza parlamentare e si trovi di fronte un’opposizione parlamentare piuttosto balbettante e solo piccoli fuochi di resistenza nelle strade, non ha la forza né la determinazione per affondare del tutto il colpo. Ha probabilmente timore di ciò che può accadere, più in termini di opposizione sociale che di aumento della povertà. Ed è esattamente su questa debolezza, celata dietro un’apparente onnipotenza, che dobbiamo lavorare.