La statuetta per la migliore attrice e il miglior attore si gioca tutto sul crinale tra classicità della tradizione e presunta innovazione pro inclusione. A noi piace vedere premiati gli interpreti perché sono fottutamente bravi e non perché i loro personaggi rappresentano qualcosa
Colin Farrell e Cate Blanchett? O Michelle Yeoh e Brendan Fraser? L’Oscar 2023 per la migliore attrice e il miglior attore si gioca tutto sul crinale tra classicità della tradizione e presunta innovazione pro inclusione. Sia la Yeoh, protagonista del multiverso di Everything everywhere all at once che Fraser, il protagonista del kammerspiel The whale, puntano proprio sul nuovo corso pro diversità che l’Academy ha imbastito di recente dimenticando che a rendere grande un film o un’interpretazione non sono le regoline da commissione morale, ma la sua naturale spontaneità ideativa e creativa. La cinesità di Evelyn Quan Wang (Yeoh) vale mille volte di più il probabile Oscar che le doti performative (già perché in EEAO si saltella parecchio) della protagonista stessa. Identico discorso per l’obesità di Charlie (Fraser) che attiva molti più recettori del risarcimento morale che le non proprio irresistibili capacità attoriali del protagonista stesso. Forse si è capito fin da subito. Siamo dei retrogradi tradizionalisti. A noi piace vedere premiati con gli Oscar attrici e attori che sbragano lo schermo perché sono fottutamente bravi e non perché i loro personaggi rappresentano qualcosa.
Tra le signore attrici, quindi, la domanda primaria è: ma che ci fa la lavandaia confusa e svampita Yeoh tra una totalizzante, gigantesca Blanchett direttrice d’orchestra dispotica e forse vittima essa stessa del suo potere in Tàr e una Michelle Williams, fatata mamma spielberghiana triturata nell’anelito antifamiliare di The Fabelmans? La risposta logica è che all’Academy si sono sbagliati. Che è finito un bigliettino con un nominativo che doveva trovarsi nel pattume. E invece stiamo qui a trastullarci su uno degli Oscar più ostentati e ipocriti che i bookmakers danno odiosamente già scritto da settimane. A concorrere nel quintetto in nomination ci sono anche Ana de Armas che rifà comunque con grazia e determinazione Marylin Monroe in Blonde e una delle più contestate nomination a livello formale della storia, quella di Andrea Riseborough in A Leslie, storia di marginalità tutta al femminile che negli Stati Uniti ha raccolto il plauso della critica.
Tra i maschietti, finché Hollywood riserverà ancora questa “differenza” di genere, dicevamo dell’eccellente salto di qualità di Farrell, l’amico petulante e vagamente scemo del duo protagonista dell’immenso Gli spiriti dell’isola. Farrell fa quello che si attende da un attore maturo (pensate al Brad Pitt di C’era una volta ad Hollywood): dedicarsi il meno possibile a mostrare la propria figaccitudine e concentrarsi sulla parte da recitare. Ebbene, con quell’aria perennemente sopra le righe che lo script di McDonagh permette, e duettando con quel titano di Brendan Gleeson (perché è in nomination tra i non protagonisti, e soprattutto perché dovrà perdere??), Farrell merita la vittoria anche solo per essersi abbassato senza remore al volere di un regista/drammaturgo di cui oggi scopriamo definitivamente la grandezza. Anche Austin Butler ha compiuto lo stesso “percorso”, e gli stessi ottimi risultati di Farrell. Diventato pongo nelle mani di Baz Luhrmann ha sciorinato un Elvis clamorosamente caldo e fragile che nessuno si aspettava. Ricordando anche cosa significhi l’iconografia di Elvis negli Usa, o anche solo perché a noi quel film è piaciuto da impazzire, le chance d Butler per l’Oscar, nonostante i bookmakers, sono ancora altine. Completano il quintetto Bill Nighy per Living e Paolo Mescal per Aftersun. Il primo è il celebre attore inglese che ha voluto indossare i panni del protagonista di un racconto del Nobel, Kazuo Ishiguro, sfumando toni dolenti e tragici di un anziano alto funzionario pubblico inglese degli anni cinquanta a cui diagnosticano un cancro terminale. Infine, Mescal interpreta con inattesa intensità un giovane papà depresso che porta in vacanza la figlia in un resort turco e con lei vive una sorta di coming of age tra diversi supporti video che ne riportano la cronaca giornaliera e che hanno fatto andare in solluchero molte nicchie cinefile odierne. Il quintetto maschile, va detto, è però tra i meno elettrizzanti degli ultimi dieci anni, con o senza lo schiaffo e la vittoria di Will Smith.