di Susanna Stacchini

L’8 marzo non è la festa della donna, ma la giornata internazionale dei diritti della donna. La differenza che passa tra le due definizioni non è formale, ma di sostanza. Oggi più che un giorno di festa è un giorno di riflessione per tutti, donne, uomini, ragazze, ragazzi.

E’ vero, molti passi avanti sono stati fatti e molti diritti conquistati, ma non possiamo abbassare la guardia e darli per scontati. Infatti, anche diritti che sembravano ormai acquisiti e consolidati vengono ciclicamente rimessi in discussione. La legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza ne è un esempio tipico. Pure nel mondo del lavoro niente è assodato. Ancora oggi troppe donne, pur svolgendo lavori analoghi a colleghi uomini, percepiscono compensi inferiori.

Ancora troppe le donne costrette a scegliere tra il lavoro e la famiglia. Troppe obbligate a scegliere tra maternità e lavoro, magari vincolando la propria assunzione a concrete garanzie di non rimanere incinte. Oppure, non esistendo un welfare degno di questo nome, troppe donne sono ancora costrette ad abbandonare il lavoro per la cura dei figli. Altre, non potendoseli permettere, sono costrette a rinunciarci preventivamente, ricorrendo all’aborto in mancanza di scelte alternative.

Tutto questo sorvolando sul fatto che stiamo dando per assunto che, nel caso, tali rinunce debbano essere esclusivamente a carico delle donne. Inutile dire che un simile terreno di coltura è perfetto come base di molti diritti negati. L’emancipazione femminile degli ultimi decenni non ha impedito di mantenere la donna, se pur con le dovute proporzioni rispetto al passato, in una condizione di sudditanza economica nei confronti dell’uomo, riducendone così l’autonomia.

Infatti, anche l’incapacità e la paura di molte donne di reagire difronte ad angherie, soprusi e violenze esercitate ai loro danni dal compagno sono proprio legate alla scarsa autonomia economica, oltre a un retaggio culturale retrogrado dal quale non siamo ancora riusciti a distaccarci definitivamente.

Quindi, ridurre il giorno di oggi a una banale festa, magari accompagnata da cene e spogliarelli di giovani uomini, è denigratorio e offensivo, soprattutto per le tante donne a cui ancora oggi vengono negati anche i diritti più fondamentali. Per quelle che hanno lottato e lottano ogni giorno della loro vita per rivendicarli ed affermarli, in favore di tutte e tutti. Penso alle donne partigiane che hanno sacrificato, se non con la vita, gran parte della loro gioventù per garantirci la libertà di oggi.

Penso alle donne che hanno fatto parte della Costituente. Donandoci la Costituzione, ci hanno fornito un pregiato contenitore di valori come strumento insostituibile a cui fare riferimento. Penso alle donne costrette a prostituirsi, picchiate e segregate. Penso alle bambine date in sposa a uomini senza scrupoli e alle altrettante giovani ragazze costrette a matrimoni combinati, spesso assassinate in caso di rifiuto.

Penso alle ragazze stuprate per le vie delle nostre città. Alle donne violentate dal compagno, al riparo delle mura domestiche. Penso a tutte le donne che vivono in regimi dittatoriali defraudate ogni giorno dei diritti fondamentali. Alle donne iraniane, disposte a morire per la libertà. Penso alle donne che vivono in paesi in guerra che provano con tutte le loro forze a sopravvivere e sono disposte comunque a sacrificare la loro vita, nel disperato tentativo di proteggere i loro figli.

E a quelle madri costrette invece a separarsi dai propri figli, nella speranza di concedergli la possibilità di un futuro migliore. Penso alle donne che tentano la fuga da paesi afflitti da guerre, fame, sete, malattie, soprusi e miserie di ogni genere affrontando un viaggio in mare, magari in condizioni meteorologiche avverse, a bordo di una specie di barca gremita da altrettanti troppi disperati, mettendo sì “in pericolo la vita dei loro figli”, ma nell’estremo tentativo di salvarli da una morte certa.

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