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Omicidio Attanasio, chiesta la pena di morte per i sei imputati nel processo congolese: l’11 marzo le arringhe difensive

La pena di morte è spesso richiesta e comminata nella Repubblica Democratica del Congo per casi legati alla sicurezza nazionale, ma non viene applicata da 20 anni e viene sistematicamente commutata in ergastolo. Sugli imputati pendono le accuse, a vario titolo, di omicidio, associazione a delinquere e detenzione illegale di armi e munizioni da guerra, con quest'ultima accusa che giustifica il ricorso al tribunale militare

La procura di Kinshasa ha chiesto la pena di morte per i sei imputati nel processo congolese sull’agguato nel quale il 22 febbraio 2021 vennero uccisi l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista del programma alimentare mondiale Mustapha Milambo. Di fronte ai giudici militari che si sono riuniti sotto il tendone adibito ad aula di tribunale del carcere militare di Ndolo, i pm hanno chiesto la massima pena per quella che, a loro dire, fu un’esecuzione.

Nessun fuoco incrociato, quindi, nessun errore: la morte dei due italiani e dell’autista congolese è stato un epilogo voluto dal gruppo di fuoco composto da sei persone, una ancora latitante e processata quindi in contumacia, che ormai più di due anni fa assaltò il convoglio sul quale viaggiavano le vittime, uccise l’autista immediatamente e giustiziò poi le altre due dopo un breve spostamento tra la vegetazione. “Le vittime sono state rapite, trascinate nel profondo della foresta prima di essere giustiziate”, ha detto il procuratore militare, il capitano Bamusamba Kabamba, nella sua requisitoria.

L’udienza è stata rinviata all’11 marzo, quando sono in programma le arringhe difensive alle quali seguirà la sentenze del tribunale militare. La pena di morte è spesso richiesta e comminata nella Repubblica Democratica del Congo per casi legati alla sicurezza nazionale, ma non viene eseguita da 20 anni perché sistematicamente commutata in ergastolo. Sugli imputati pendono le accuse, a vario titolo, di omicidio, associazione a delinquere e detenzione illegale di armi e munizioni da guerra, con quest’ultima accusa che giustifica il ricorso al tribunale militare.

Il processo di Kinshasa, nel quale sia lo Stato italiano sia la famiglia Attanasio si sono costituiti parte civile, è stato caratterizzato da dubbi e stranezze fin dal principio. L’accusa si basa in gran parte sui video del primo interrogatorio fatto a cinque dei sei imputati poco dopo l’arresto e nel quale gli uomini si sono tutti assunti le responsabilità dell’agguato, indicando uno di loro, Marco Prince Nshimimana, come l’esecutore materiale dell’omicidio. Ma nel corso della prima udienza sia Nshimimana sia gli altri quattro, Bahati Kiboko, Murwanashaka Mushahara André, Issa Seba Nyani e Amidu Sembinja Babu, hanno ritrattato dichiarandosi innocenti. Il motivo dietro la loro confessione? È stata “estorta con la tortura“. E soprattutto si trattava di interrogatori svolti senza la presenza degli avvocati difensivi ai quali gli imputati avevano diritto. Così sono iniziate le verifiche che non hanno fatto emergere, secondo quanto appreso da Ilfattoquotidiano.it, alcun segno di tortura, anche se resta complicato stabilirlo semplicemente dall’analisi dei video.

Ma i dubbi sul corretto svolgimento del processo non si fermano qui. Anche sulla figura di Bahati Kiboko rimangono molte domande senza risposta. L’uomo, infatti, ha più volte dichiarato che nelle ore dell’agguato si trovava ancora in carcere a Goma e che quindi non poteva trovarsi sul luogo dell’omicidio. A riprova delle sue affermazioni, il suo avvocato ha presentato un documento carcerario in cui si attesta che l’uomo è stato fatto uscire di prigione solo nel pomeriggio di quel 22 febbraio, ore dopo l’agguato, avvenuto intorno alle 10.15 ora locale. Una ricostruzione contestata dall’accusa, tanto che il tribunale ha predisposto delle verifiche. Ed è a questo punto che emergono i dubbi. Secondo quanto riferito da fonti della Farnesina a Ilfattoquotidiano.it, il Tribunale di Kinshasa non ha richiesto la documentazione sulla scarcerazione di Kiboko direttamente alla prigione di Goma, ma ha deciso di delegare l’analisi del dossier al tribunale della città capoluogo del Nord Kivu: “È stato posto un quesito formale al Tribunale di Goma che ha trasmesso una relazione scritta in proposito redatta sulla base delle risultanze dell’esame dei registri del carcere di Goma – dicono – In udienza ne è stata data lettura e il documento è stato incluso nel fascicolo e consegnato ai legali della difesa”. Questo documento, concludono, proverebbe che la scarcerazione di Kiboko non è datata 22 febbraio 2021, bensì un mese prima, il 22 gennaio. Ciò che risulta strano, però, sono le modalità con le quali sì è arrivati a questa conclusione. Prima di tutto, non si capisce la necessità di incaricare il Tribunale locale di fornire una relazione alla Corte della capitale basata su un dossier ufficiale riguardante un detenuto, quando la verifica delle affermazioni di Kiboko sarebbe potuta avvenire semplicemente ottenendo la documentazione del carcere. Inoltre, come in Italia, anche in Rdc al momento della liberazione di un detenuto viene prodotto un provvedimento di scarcerazione che deve essere controfirmato dal diretto interessato. È questo l’unico documento in grado di togliere ogni dubbio sulla veridicità o meno delle dichiarazioni dell’imputato. Ma non è chiaro se questo sia stato allegato alla relazione inviata da Goma.