Cina e Stati Uniti si stanno attrezzando per uno scontro che non può più essere considerato solo economico o diplomatico, ma che contempla anche la possibilità di una crisi di tipo militare. E le ultime dure dichiarazioni del ministro degli Esteri di Pechino, Qin Gang, non sono altro che la prova di un costante e graduale deterioramento dei rapporti tra le due potenze mondiali. Per Giorgio Cuscito, analista di Limes esperto di geopolitica cinese e dell’Indo-Pacifico, l’ultimo episodio dell’escalation tra Washington e Pechino deve preoccupare proprio perché si tratta del nuovo stadio in un processo che va ormai avanti da anni e che non ha ancora conosciuto un vero cambio di rotta: “Dichiarazioni così nette da parte dei vertici cinesi non si sentivano da molto tempo – spiega a Ilfattoquotidiano.it -, sono il frutto di un contesto molto teso e di un complessivo peggioramento dei rapporti Usa-Cina”.

Come spiega l’analista, i due Paesi “non sono lontanamente in sintonia ormai da tempo. E questa situazione è andata sempre più aggravandosi in parallelo a un processo di rafforzamento militare della Repubblica Popolare nel Mar Cinese Meridionale, dove è in atto la vera guerra tra le due potenze”. Se da una parte Xi Jinping considera quell’area il proprio “cortile di casa”, acque dove pretende di poter navigare tranquillamente e senza influenze esterne, il leader comunista deve però fare i conti con un’azione di accerchiamento condotta dagli Stati Uniti che, a partire da Taiwan, cercano di portare dalla propria parte il maggior numero possibile di Paesi in funzione anti-cinese. Ed è proprio questo atteggiamento che è stato denunciato dal ministro cinese martedì, quando ha parlato di “contenimento e repressione” messi in atto da Washington. Una strategia, ha sottolineato, che se gli Usa non “frenano, continuando sulla strada sbagliata, porterà sicuramente a conflitti e scontri. Chi ne sopporterà le catastrofiche conseguenze?”.

L’amministrazione americana sta da anni cercando di portare dalla sua parte Paesi come il Giappone, senza dimenticare l’ormai nota militarizzazione di Taiwan. Una situazione che rischia di aggravarsi nei prossimi mesi, quando, dopo l’imminente incontro in California con la presidente taiwanese Tsai Ing-wen, il nuovo speaker della Camera, Kevin McCarthy, potrebbe recarsi sull’isola “ribelle” dopo la visita agostana di Nancy Pelosi che scatenò l’ira di Pechino, con conseguenti provocazioni di tipo militare da ambo le parti. “Notiamo certamente segni di indolenza da parte della Cina per l’azione d’influenza americana sugli attori dell’area – continua Cuscito – E per questo Pechino sta parallelamente promuovendo una iniziativa di sicurezza globale, un consesso tramite il quale affermare la propria visione del mondo e i propri obiettivi geopolitici. Sta cercando di convincere più Paesi possibile, anche se per il momento ha ottenuto l’ok solo della Russia, per creare quella che in sostanza è una struttura securitaria alternativa. Il messaggio che Pechino vuole trasmettere è che il senso di sicurezza della Cina è funzionale alla stabilità del pianeta“. Ed è anche per spingere questo processo che Pechino ha deciso di rilasciare certe dichiarazioni, lunedì per bocca dello stesso Xi Jinping e martedì veicolate dal ministro degli Esteri, inusuali se si considera la consueta strategia diplomatica del Dragone: “Colpevolizzare gli Usa – spiega Cuscito – favorisce la creazione di una nuova struttura difensiva alternativa”.

Fra tutti i punti di scontro tra le due potenze, da quello commerciale alla guerra in Ucraina, quello di Taiwan rimane comunque il principale. Perché se gli Stati Uniti riuscissero a portare definitivamente Taipei dalla propria parte, di fatto limiterebbero di molto l’accesso, e soprattutto la sicurezza della Cina nel Pacifico. Per questo Pechino si sta preparando anche alla possibilità estrema di un’invasione militare dell’isola, con conseguente scontro con Washington: “Non è certo un’opzione caldeggiata dal Partito Comunista Cinese – chiarisce l’analista – Pechino sa bene che un’invasione di Taiwan non solo danneggerebbe gli affari e il soft power, ma innescherebbe l’intervento di Usa e Giappone. Senza dimenticare la crisi sociale ed economica interna che non permette all’esecutivo cinese di intraprendere un conflitto senza pesanti ripercussioni. Anche in quest’ottica deve essere letta la criminalizzazione sempre più accentuata delle azioni Usa. Mostrarsi come un Paese sotto attacco giustifica l’eventualità del ricorso al mezzo militare”.

Twitter: @GianniRosini

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