di Maurizio Contigiani

Nel mondo moderno, l’economia, il mercato e la finanza ce la fanno così difficile che rimane “complicato” valutare realmente come “semplicemente” stiano le cose.

Gli stati crescono, il loro Pil aumenta in maniera esponenziale soprattutto quando partono da sottozero. In queste realtà, le popolazioni sono composte da poveracci, morti di fame, miserabili illusi di salire qualche gradino nella progressione algebrica negativa attraverso qualsiasi opportunità che tenda a portarli almeno a ridosso dello zero.

Così è stato per gli Stati Uniti, una nazione creata dagli Europei più poveri in canna, talmente disperati da prendere le loro valige di cartone piene di rabbia e di determinazione e partire per un percorso di gironi infernali da passare di volta in volta ai nuovi arrivati nel momento in cui loro salivano i famosi gradini della crescita fino all’agognato segno più.

Così è stato nella seconda guerra mondiale, dove chi ha perso è cresciuto più di chi ha vinto, proporzionalmente al livello di come era stato raso al suolo. Giappone in primis, seguito da Germania e poi l’Italia.

Ma il capitalismo deve crescere e anche nella vecchia Europa non c’erano più poveri disposti a lavorare nelle fabbriche con paghe da fame e allora abbiamo creato una sinergia tra l’interesse economico del “Sacro Romano Impero” e i politico-imperialisti dello Zio Sam, allargando il nostro modello a quasi tutti i Paesi ex sovietici. Popolazioni ridotte ad uno stato postbellico senza aver perso una guerra ma a causa di un sistema di vita non idoneo a durare nel tempo. Così hanno iniziato a “crescere” anche Polonia, Romania, Ungheria, Bulgaria, con le nostre fabbriche delocalizzate, i nostri ricchi tornati a nuova vita senza la lotta di classe, senza stipendi sopra la soglia di dignità, senza più l’incubo dei sindacati, realtà inesistenti in quei Paesi dell’est.

Col passare del tempo anche i lavoratori/schiavi, ex sovietici si sono avvicinati molto allo zero algebrico e, iniziando a tirare calci, hanno fatto in modo che la produzione si spostasse nei due più grandi e duraturi serbatoi di povertà del mondo, Cina e India.

Oggi non esiste manufatto che noi usiamo o semplicemente tocchiamo che non sia fabbricato in Cina, in India o in qualche paese dove anche loro iniziano a delocalizzare.

Oggi, al mondo, non c’è più nessun luogo dove poter scaricare le proprie feci capitalistiche, in genere evacuate in ogni rispettivo sud dell’area da dove venivano generate (Messico, Centro e Sudamerica per gli Yankees, Sud-est Asiatico per Giappone, ex colonie per Francia e Inghilterra, Meridione per il Nord Italia, che non aveva colonie).

Oggi, al mondo, non c’è più posto per nessuno e prima di parlare di crollo ed estinzione per il riscaldamento globale, sarebbe il caso di capire che la nostra fine è più prossima per i motivi di cui sopra. Perché prima di non avere più aria da respirare ci mancheranno i soldi, non solo per obbligarci a consumare per vivere ma per farci mangiare, andare a scuola, curarci e avere un tetto sotto cui dormire.

Oggi, al mondo, siamo rimasti in pochissimi ad avere l’illusione di stare ancora bene. Ormai per tentare l’impossibile c’è rimasta solo la guerra che perderemo contro un’immensità che sta male. Prima di morire per mancanza d’aria moriremo in un inferno molto più simile a Blade Runner, un inferno di mazze preistoriche e armi avveniristiche, di disperate offerte di pesce secco e megabyte, di piogge e notti perenni. Le uniche cose a sopravvivere, come nel film, per ricordarci chi eravamo saranno solo le insegne pubblicitarie di Sony e Coca Cola.

Mi auguro di sbagliare.

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