L'Inflation reduction act attira investimenti delle aziende del Vecchio continente, mentre il piano europeo per il Green deal arranca causa divisioni tra i 27. Il Financial Times dà voce ai produttori che chiedono "misure concrete", leggi soldi, per non delocalizzare. L'Ue rischia la deindustrializzazione? L'economista De Novellis: "La concorrenza si fa su tanti fronti: produttività, tecnologie, capitale umano. Gli aiuti pubblici? Per trovare risorse si finisce per tagliare la spesa sociale". Paganetto: "Piuttosto che lanciare allarmi si concentri l’attenzione sulla capacità europea di elaborare una politica industriale"
Lo scorso autunno il commissario Ue per il mercato interno, Thierry Breton, l’ha definito “una sfida esistenziale all’economia europea”. Ora l’Inflation reduction act (Ira) statunitense inizia a fare le prime vittime, nella forma di grandi investimenti produttivi che si spostano dal Vecchio continente all’altra sponda dell’Oceano. Perché lì beneficeranno del piano da 369 miliardi di aiuti e agevolazioni per la transizione verde messo in campo lo scorso agosto da Joe Biden. L’ultimo caso riguarda Volkswagen, che ha fermato il progetto di costruzione di una fabbrica di batterie per auto elettriche in Europa orientale: la aprirà negli Usa, intascando 9-10 miliardi di euro di incentivi pubblici. Bruxelles, che l’anno scorso temeva la deindustrializzazione come conseguenza dei rincari energetici spinti dall’invasione russa dell’Ucraina, ora rischia di subirla per effetto della guerra dei sussidi? O piuttosto l’obiettivo dei produttori è mettere pressione sulla Commissione e sui governi per ottenere di più?
Al momento, va detto, la Ue non ha fatto moltissimo per raccogliere il guanto di sfida. La risposta europea al piano di Biden si chiama Green deal industrial plan, ma su come finanziarlo gli Stati si sono divisi e l’ipotesi di un fondo sovrano alimentato con debito comune non è passata. In attesa della presentazione la settimana prossima del Net-Zero Industry Act, che stando alle bozze vuol aumentare la capacità produttiva di tecnologie per la decarbonizzazione velocizzando gli iter autorizzativi, al momento il punto di caduta è solo una maggiore flessibilità sugli aiuti di Stato. Che però si traduce in un vantaggio competitivo per i Paesi con bilanci forti a scapito di quelli più indebitati. Il balletto è andato avanti mesi, intrecciandosi con le discussioni sulla riforma del patto di stabilità, e ha fatto riemergere le usuali divisioni tra falchi e colombe. Troppa lentezza e troppa incertezza per i gusti della grande industria, a cui nel frattempo Washington prometteva tappeti rossi. Chi stava decidendo dove localizzare un nuovo stabilimento negli ambiti che ricadono sotto l’ombrello dell’Ira ha scelto di conseguenza. Mandando un chiaro messaggio a Palazzo Berlaymont.
Il Financial Times non a caso dà voce (sotto anonimato) ai produttori di batterie che la scorsa settimana hanno partecipato a un incontro a Bruxelles con la commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager. I commenti vanno dal “mancano misure concrete” alla considerazione che, semplicemente, “se mettiamo in fila i numeri, le condizioni offerte dagli Stati Usa sono molto più interessanti di quelle in Europa”. Così Volkswagen, che stava aspettando le risposte europee al piano di Washington, alla fine ha optato per il Nord America (oltre a confermare forti investimenti in Cina). E l’ad Markus Duesmann ha ventilato la possibilità che anche il brand Audi apra una linea di assemblaggio negli Usa. Bmw sta a sua volta investendo un altro miliardo nello stabilimento di auto elettriche di Spartanburg, in South Carolina, più 700 milioni per creare lì vicino una fabbrica di batterie. Mentre il produttore svedese di batterie Northvolt avrebbe “suggerito” che potrebbe scegliere gli Usa invece della Germania “a meno che Bruxelles non dia un supporto più concreto“. In soldoni: ha stimato che là prenderebbe 8 miliardi, per ripensarci vuole di più. Il numero uno del gruppo chimico Basf, annunciando un piano di risparmi in Germania accompagnato da investimenti in Usa e Cina, ha lamentato dal canto suo “eccesso di regolamentazione, processi di autorizzazione lenti e costi elevati per la maggior parte dei fattori di produzione”.
“Aspetterei prima di parlare di un problema di competitività europea”, commenta l’economista Fedele De Novellis, partner di Ref Ricerche, frenando sul rischio deindustrializzazione. “Lo scorso anno, nonostante l’esplosione dei prezzi energetici, l’industria ha retto, complice anche il tasso di cambio. La concorrenza si fa su tanti fronti: produttività, tecnologie, capitale umano, costi del lavoro. Non solo sussidi. L’industria batte cassa, fa molte pressioni per ottenere più risorse dal bilancio pubblico, ma attenzione: per trovarle va a finire che a rimetterci è la spesa sociale“. Soprattutto in Paesi come l’Italia dove i proverbiali “spazi fiscali” sono stretti. Morale: cedere alle richieste dei produttori in una sorta di asta al massimo sussidio rischia di essere deleterio. Gli incentivi alla decarbonizzazione sono necessari perché la transizione verde è costosa, “ma la Ue ha già una serie di incentivi in tutti i settori. E una parte dei fondi del Recovery plan non opzionati potranno essere riallocati per finanziare investimenti legati alla transizione ambientale”. Di sicuro, concentrando l’attenzione sull’Italia, non aiuta tentare di rinviare passaggi – come quello verso l’auto elettrica – che ormai sono stati ampiamente digeriti dai grandi produttori, come evidente dalle loro decisioni di investimento. “Modulare i tempi per renderli realistici è una cosa, ma posticipare mantenendo una struttura produttiva arretrata significa continuare ad accumulare svantaggi competitivi“, avverte De Novellis.
Concorda Luigi Paganetto, presidente della Fondazione Economia dell’Università di Roma Tor Vergata: “Al di là di dove investe, e lo fa in particolare in Cina, il punto rilevante è che Volkswagen sta facendo investimenti impressionanti sull’auto elettrica. Parliamo di multinazionali che investono in molti Paesi ma che continueranno a farlo in Ue, un mercato da 450 milioni di consumatori. Piuttosto che lanciare allarmi è il caso di concentrare l’attenzione sulla capacità europea di fare scelte concordate e di elaborare una politica industriale non solo per rispondere al piano Usa, ma soprattutto per vincere la sfida del cambiamento in atto a livello globale Si può e si deve discutere sulle decisioni europee riguardo all’uscita dai motori endotermici e soprattutto sul fatto di privilegiare una tecnologia rispetto alle altre, ma bisogna prendere atto che tutti i big stanno andando nella stessa direzione. Inutile perdere altro tempo, come accadde all’ex Fca che di fatto, rinunciò a competere in quel comparto”.