“Gli aerei decollano e atterrano. Non spariscono dalla faccia della Terra”. È con questa frase, pronunciata dal giornalista aeronautico americano Jeff Wise, che si apre la nuova miniserie Netflix sulla scomparsa del volo MH370 della Malaysia Airlines avvenuta l’8 marzo 2014.
A voler essere più precisi, l’affermazione di Wise potrebbe essere riformulata specificando che ogni tanto – pochissime volte in percentuale al numero di voli quotidiani in tutto il mondo – gli aerei precipitano. Ma vengono ritrovati, sempre. Quel Boeing 777 decollato in notturna da Kuala Lumpur e diretto a Pechino è invece letteralmente sparito dai radar, annichilendo le vite delle 239 persone a bordo e generando quello che, a tutti gli effetti, è oggi il più grande e inquietante mistero dell’aviazione civile.
Negli ultimi nove anni sono state presentate all’opinione pubblica tesi più o meno realistiche per venire a capo della vicenda. Quella più istituzionale, fornita dal governo malese, addebita l’incidente al suicidio-omicidio del comandante Zaharie Ahmad Shah. Non sarebbe la prima volta che un evento del genere si verifica. Il 24 marzo 2015, Andreas Lubitz, il copilota del volo 9525 Barcellona-Düsseldorf della Germanwings, chiuse fuori dalla cabina il comandante mandando a schiantare l’aereo sulle Alpi francesi. Le dinamiche della tragedia furono ricostruite subito grazie al recupero della scatola nera e al ritrovamento immediato dei resti dell’aeromobile e dei corpi delle 150 persone a bordo. I parenti delle vittime ebbero dei resti su cui piangere, quella volta.
La miniserie in tre puntate di Netflix si apre proprio con le testimonianze tormentate di mogli, mariti, parenti e amici dei passeggeri e della crew di bordo dell’MH370. Parla una hostess della Malaysia Airlines che ha perso il compagno e collega, quella notte di turno sul volo scomparso. Parla un padre francese che vive a Pechino ed è in attesa di riabbracciare figli e consorte in vacanza in Malesia. E parlano le immagini – i frammenti dei video che riprendono l’attesa spensierata dei passeggeri in attesa di imbarcarsi – e le voci della torre di controllo che – da ruolino, alle 00:41 – autorizza il decollo dell’aereo.
Venti minuti dopo, il Boeing 777 raggiunge la sua quota di crociera, ma giunto all’interno dello spazio aereo tra Malesia e Vietnam scompare dai radar. All’alba dell’8 marzo vengono avviate le procedure di ricerca che, da prassi, partono dal luogo dell’ultimo contatto con i controllori malesi registrato sul Mar Cinese meridionale. Mentre la macchina del soccorso carbura i familiari delle vittime – giunti nottetempo all’aeroporto di Kuala Lumpur – continuano a chiamare i familiari a bordo. Alcuni telefoni, riferiscono, squillano liberi. Poiché nulla trapela dalle autorità locali, queste persone chiedono alle istituzioni di seguire i tracciati di quelle telefonate per rintracciare la posizione dell’aereo. Viene risposto loro che la Malesia non dispone della tecnologia necessaria per quel tipo di operazione.
È questa circostanza che spalanca uno dei primi squarci nella gestione ufficiale di un’operazione di recupero che nel frattempo è diventata ciclopica. Nei giorni successivi all’incidente iniziano a configurarsi quelle che sarebbero divenute le più costose operazioni di ricerca della storia dell’aviazione condotte da mezzi di terra e di mare di 14 paesi diversi. Che setacciano prima il Mar Cinese meridionale, poi – usando le indicazioni fornite da alcuni radar militari – il mare delle Andamane fino al colpo di scena: il 24 marzo il primo ministro malese, Najib Razak, nel corso di una conferenza stampa tesissima annuncia che il servizio di comunicazione satellitare britannico Inmarsat ha captato segnali riconducibili all’aereo in una zona completamente fuori rotta, un tratto remoto e vastissimo dell’Oceano Indiano meridionale caratterizzato da fondali ricoperti da vulcani e attraversati da enormi faglie.
Nel frattempo, a Kuala Lumpur regna il caos. Le falle tecnologiche e comunicative dell’unità di crisi malese fanno infuriare i già provati parenti delle vittime ponendo le basi per la nascita di gruppi indipendenti di esperti che iniziano a condurre indagini parallele. La più credibile di queste task force, di cui fa parte anche Wise, giunge dopo mesi di studi e analisi a una conclusione che avalla la tesi delle istituzioni locali: il volo MH370 è stato dirottato intenzionalmente dal capitano Shah che – si scopre – aveva eseguito parte di quella rotta sul suo simulatore di volo. Il cerchio sembra chiudersi: sebbene solo sulla base di calcoli matematici, l’aereo è dichiarato ufficialmente perduto. Il ritrovamento del flaperon e di altri resti compatibili con un Boeing 777 sull’Isola di Riunione e al largo delle coste del Madagascar da parte dell’esploratore americano Alan Blaine suffraga questa ipotesi.
Fine della storia? Niente affatto. Quattro mesi dopo la scomparsa del volo MH370, un altro Boeing 777 della compagnia di bandiera malese viene abbattuto dall’esercito russo sui cieli dell’Ucraina dell’est uccidendo 283 passeggeri e quindici membri dell’equipaggio. Mai, nella storia dell’aviazione civile, una compagnia aerea ha perso due aerei di linea in circostanze così ravvicinate e disastrose.
È anche nelle pieghe di questo frangente che la versione ufficiale inizia a incrinarsi e affiorano le prime tesi complottiste. Come quella sostenuta dalla giornalista francese Florence de Changy che, dopo aver scandagliato la vita di Shah e averlo scagionato, sostiene che l’esercito americano abbia abbattuto il volo MH370 per evitare che tecnologie strategiche caricate a bordo di nascosto potessero raggiungere la Cina. O come quella partorita da Jeff Wise che abbandona l’ipotesi del suicidio del pilota per una nuova versione dei fatti secondo cui la Russia, per sviare l’attenzione internazionale dall’invasione della Crimea, avrebbe sabotato la rotta dell’aereo obbligandolo ad atterrare in Kazakistan.
Fantasie dettate dall’ego di giornalisti in cerca di fama? Possibile. Una sola cosa è certa: a distanza di nove anni da quell’8 marzo 2014, lo scheletro del volo MH370 non è ancora stato ritrovato.