Negli anni 80 Palermo era come Beirut. Fiumi di sangue di innocenti e mafiosi, scorreva tra le vie e piazze nell’indifferenza di un latitante Stato. Una vera mattanza voluta da Salvatore Riina, altro che guerra di mafia. In quel contesto funesto, ci fu una borgata Ciaculli, vessata e violentata. Addirittura furono chiusi accessi con catene e ostacoli di ogni tipo, per impedire il libero transito nelle stradine dell’agro di Ciaculli. Una sorta di supremazia mafiosa sullo Stato e l’annullamento della libertà altrui. La Costituzione era ridotta a carta straccia.
Accadde, che il giorno di Natale del 1982, il più spietato killer di Cosa nostra, Pino Greco “scarpuzzedda”, scampò ad un agguato teso da Giovannello Greco e Romano Giuseppe. Il mancato attentato scatenò una violenta ritorsione da parte dei cosiddetti vincenti. Furono assassinati amici e familiari di Giovannello Greco, di Salvatore Contorno, di Buscetta (il genero, il fratello Vincenzo col figlio, io intervenni nel duplice omicidio avvenuto nella loro vetreria). Mentre il Romano, dopo essere fuggito negli Stati Uniti fu assassinato a Fort Lauderdale (Florida) insieme a un amico testimone di nozze di Buscetta, che si trovava casualmente insieme al Romano. Insomma, una decina di persone furono ammazzate.
Dopo l’agguato, Pino Greco per assicurarsi la massima protezione, decise di mandar via da Ciaculli tutte quelle famiglie che non offrivano garanzie per la sua sicurezza. Quindi, promulgò un editto, obbligando con le minacce di morte alcuni abitanti a lasciare la borgata in un tempo relativamente breve. In buona sostanza un esodo forzato. La notizia in forma confidenziale giunse a noi della Squadra mobile e fu così che io e il commissario Beppe Montana iniziammo le indagini. Facemmo un censimento porta a porta ed effettivamente alcune famiglie erano “scomparse” da Ciaculli, trasferendosi nell’hinterland.
Alcuni li rintracciammo, ma non ci furono di grande aiuto: negarono le minacce ricevute, adducendo disparati motivi. Se ricordo bene, solo uno ci raccontò dettagliatamente la sua drammatica vicenda. Ci disse che Pino Greco gli aveva imposto di lasciare la casa e, mentre erano in corso le minacce, faceva radere al suolo il magazzino posto accanto alla casa stessa. Scarpuzzedda fece buttar giù il magazzino con una ruspa, perché temeva che qualcuno si potesse nascondere all’interno e compiere un agguato. Infatti, il magazzino era posto proprio vicino la trazzera che Scarpuzzeda usava per andare e venire dalla sua villa appena costruita e dal suo covo, che poi scoprimmo essere una caverna naturale, occultata da una grossa macchia mediterranea (mi sono ricordato che facemmo il blitz nella sua villa. La grotta era ai pendici della montagna di Ciaculli e distava un centinaio di metri dalla villa).
Nel corso delle indagini furono rinvenute in una casa abbandonata alcune lettere (tre) dal seguente tenore: “Caro Francesco, hai un mese di tempo per andartene da Ciaculli con tutta la tua famiglia… Hai un anno di tempo per venderti tutto… e dopo il mese sarai ancora a Ciaculli, ricadranno su di te e ai tuoi cari, gravi disgrazie. Addio”. Un’altra lettera: “Caro Francesco, ti comunichiamo che a partire da oggi 19.1.1983 hai un mese di tempo per andartene…”. Contestualmente al ricevimento di quest’ultima lettera, venivano date alla fiamme le auto della moglie e del cognato di Francesco.
Comunque, nessuno di loro ammise di aver ricevuto minacce e così fecero gli altri da noi identificati. Dai sopralluoghi accertammo che alcune case erano aperte e disabitate: ovviamente vandalizzate. Non fu risparmiata nemmeno la casa del vecchio capo di Cosa nostra Salvatore Greco “Cicchiteddu”, ormai defunto.
Mi rimase impresso nella memoria il parziale incendio doloso di una casa con gli abitanti all’interno e che per fortuna riuscirono a salvarsi. Orbene, esattamente dopo una decina di anni dai fatti di Ciaculli, incontrai al Nord la famiglia alla quale avevano incendiato la casa: marito, moglie e figlio. Il marito, mi raccontò che dopo la precipitosa fuga da Ciaculli, qualcuno si era impossessato della sua casa e dell’agrumeto. Aveva tentato di vendere tutto, ma nessun acquirente si presentò. Egli non aveva fatto più ritorno a Ciaculli e questo lo rammaricava assai assai. Nel contesto delle indagini, aiutai un giovane a fuggire da Palermo: gli avevano ucciso il padre e lo zio e lui sarebbe stato la prossima vittima. Oggi, quel giovane è un felice nonno e sono orgoglioso di averlo salvato.
Questa è la storia di una Palermo, abbandonata a se stessa, dove Riina aveva il potere di vita o di morte sulle persone. Io non ero affatto stupito, giacché conoscevo a menadito luoghi, mentalità e personaggi. A lui viene attribuita una frase, quando emetteva la sentenza di condanna: “Così non vedrà l’alba del giorno dopo”.
[Foto scattata nei pressi di Ciaculli, ci siamo io e Beppe Montana]