L'attore romano, talvolta ritrovato a fare grandi personaggi dentro piccoli film, fa quello che fanno i veri divi: vede che il film è grande e prova a farsi un po’ piccolo con una misurata e credibilissima grazia da sbirro meridionale al Nord.
“Riuscito”, “il miglior esempio”, “buono però”… ma che diavolo è tutta questa stitichezza critica? Su, coraggio. L’ultima notte di Amore, diretto da Andrea Di Stefano, è un film stramaledettamente perfetto. Quando produciamo a casa nostra un’opera del genere dovremmo semplicemente dedicarci al famigerato lancio festivaliero dei “dodici minuti di applausi”. Milano marcia, l’avrebbero titolato Di Leo&Co. cinquant’anni fa. Anche se, attenzione, non dobbiamo cadere nella trappola dei generi; perché questo incubo metropolitano centellinato fotogramma per fotogramma, epidermicamente incombente, sinuosamente tragico, che cade addosso al poliziotto Franco Amore (Pierfrancesco Favino), a poche ore all’agognata pensione, mastica echi di noir, di poliziesco, di thriller per poi ridipingerli sulla tela di una Milano notturna sulfurea e inafferrabile.
Amore è un poliziotto onesto, ma non per questo classicamente buono, che in tutti questi anni di servizio non ha mai sparato a un uomo. Intanto il cognato, in un ristorante a pochi passi sta trafficando orologi con un calciatore miliardario. Successivamente in un bordello d’elite Franco viene chiamato con urgenza dal cognato per salvare, con un massaggio cardiaco, un anziano cinese che altri non è che un ricco uomo “d’affari”. Il cinese lo invita nel suo attico vicino al Duomo e tra discinte signorine e tirapiedi orientali chiede ad Amore di diventare capo del suo servizio di security con stipendio altissimo e cash. Amore mette le mani avanti, ma poi cede, e quando pochi giorni dopo, proprio a poche ore dalla pensione, deve trasportare con il collega di una vita una tizia cinese con una strana valigia appena arrivata a Malpensa, si ritrova ficcato in un inganno criminale più grosso di lui. L’andamento narrativo de L’ultima notte di Amore, come capite dalla trama, ha questa sorta di tripartizione ellittica (ultima notte-dieci giorni prima-ultima notte) con una coda all’alba mozzafiato in mezzo ad una Milano semivuota dove l’antieroe viaggerà solitario e chissà se incolume.
Se Di Stefano si gioca il flashback con robustezza di regia e con un taglio preciso sul tono della voce dei protagonisti (Franco, la moglie, il cognato e il collega sono calabresi e masticano dialetto) e sulle poche puntuali parole che si dicono l’un l’altro (vedi il sentimento che Favino costruisce con la Caridi in ascensore o davanti a un melone), è nella larga magistrale parte centrale che riannoda i fili dell’inganno costringendo tutto il cast ad abitare parossisticamente uno spazio notturno di un ampio svincolo stradale illuminato da fanali, sirene, lampioni dove è avvenuta una sparatoria con morti. Di Stefano si gioca il film muovendo avanti e indietro Favino per qualche decina di metri tra cadaveri, poliziotti corrotti, pantere parcheggiate e passanti inquieti che guardano la scena del crimine; facendogli incontrare praticamente tutti i personaggi del film per trovare la propria via d’uscita dalla trappola, ed ogni volta l’inquadratura, il taglio, l’angolazione non è mai lo scarto rimasto da quella precedente. In L’ultima notte di Amore ogni superficie, ogni sfondo, anche quando si passa per qualche esterno giorno, diventano nel disegno generale, nella predisposizione scenica, nella simbologia delle loro linee (l’alto basso dello svincolo con sopra il ponte che cela un segreto; l’antro profondo del bordello dove Amore si ficca, chapeau) un elemento altamente spettacolare e di suspense. Dal film di Di Stefano, insomma, non si staccano mai gli occhi, nemmeno quando ti viene qualche dubbio sul fatto che Favino 60 e rotti anni non li dimostri nemmeno con le mèches grigie. Il soundtrack a tratti maestoso di Santi Pulvirenti spunta febbrile con una spinetta che sale e scende come se fossimo in un horror. Linda Caridi si era spogliata in Lacci ed eravamo svenuti, qui diventa co-eroina di peso e sa stare agilmente al gioco. Favino, talvolta ritrovato a fare grandi personaggi dentro piccoli film, fa quello che fanno i veri divi: vede che il film è grande e prova a farsi un po’ piccolo con una misurata e credibilissima grazia da sbirro meridionale al Nord.