di Simona Abbate (Greenpeace) e Antonio Tricarico (ReCommon)

A inizio febbraio il Segretario Generale della Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha lanciato un messaggio d’allarme inequivocabile diretto all’industria dei combustibili fossili: occorre creare una road map vera e credibile per l’azzeramento netto delle emissioni prodotte da tutte le loro attività produttive.

Un appello che però Eni si ostina a ignorare. Solo pochi giorni dopo le parole di Guterres, infatti, durante il proprio Capital Market Day tenutosi il 23 febbraio, la compagnia italiana ha presentato una strategia pluriennale che prevede, entro il 2030, un aumento della produzione di gas fossile, la cui quota salirà al 60% del business totale. Inoltre, rispetto agli annunci dello scorso anno, la quota di produzione ed estrazione annuale aumenterà di un punto percentuale passando dal 3% al 4% e raggiungendo un picco dal 2026 al 2030, con cinque anni di ritardo rispetto ai piani passati.

La comunità scientifica internazionale concorda sul fatto che non dobbiamo aumentare il livello di gas serra in atmosfera e lasciare i combustibili fossili dove sono, sottoterra. Il cane a sei zampe, invece, prevede di raddoppiare i contratti di Gas Naturale Liquefatto (Gnl) passando dalle 9 mega tonnellate annue del 2022 a 18 entro il 2026.

Siamo di fronte, dunque, all’ennesima programmazione pluriennale da parte di Eni che non mostra di voler cambiare passo per ridurre le emissioni di gas climalteranti. Se si guardano i dati del ramo aziendale di Plenitude, azienda che negli spot viene rappresentata come una realtà proiettata su soluzioni “green”, ci si rende conto di come la programmazione effettuata nel 2022 viene sostanzialmente confermata senza lo slancio che servirebbe per attuare la transizione verso le energie rinnovabili.

Rispetto alla programmazione presentata lo scorso anno vengono, inoltre, aumentati gli investimenti sulle tecnologie per la cattura e lo stoccaggio del carbonio (Ccs); Eni punta a triplicare la capacità di cattura e stoccaggio, arrivando a raggiungere uno stoccaggio complessivo di circa 10 milioni di tonnellate di CO2 all’anno maximum torque per ampere (MTPA) nel 2030 e una capacità lorda complessiva di 30 MTPA, di cui gran parte sarà dedicata a servizi che l’azienda offre ad altre società. Tuttavia, il Ccs è una falsa soluzione messa in campo per salvare i combustibili fossili – carbone, petrolio e gas – che in questo modo potrebbero essere considerati “a basse emissioni”, visto che queste tecnologie di cattura del carbonio non consentirebbero comunque di arrivare a emissioni zero.

In poche parole, assistiamo a un nuovo esercizio di greenwashing dell’azienda, utile solo a rinviare la transizione verso le energie rinnovabili. Come dimostra anche il fatto che solo il 25% degli investimenti del gruppo sarà destinato alle attività zero e low carbon. Nei prossimi quattro anni, gli investimenti di Eni sulle fonti fossili continueranno infatti a costituire il 75% del totale, mentre i fondi per l’espansione degli idrocarburi passeranno da 4,5 a 6,5 miliardi di euro ogni anno.

Non stupisce che la politica energetica dell’azienda sia perfettamente in linea con la volontà del governo di trasformare l’Italia nell’hub del gas europeo. Una scelta che non è solo altamente dannosa per il nostro pianeta, ma che rischia anche di legare i nostri approvvigionamenti energetici a Stati e zone geografiche ad alta tensione geopolitica.

Mentre Eni e il nostro governo si vantano di aver diversificato la provenienza del gas fossile, occorre ricordare ciò che la scienza ha ormai reso palese. Per aumentare la sicurezza energetica italiana – e allo stesso tempo ridurre le emissioni di gas serra – le strade sono altre. Si chiamano rinnovabili, efficienza e risparmio energetici. Le uniche soluzioni che ci porteranno verso quella transizione ecologica ed energetica di cui abbiamo urgente bisogno.

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