La famiglia Attanasio dice ‘no’ alla pena di morte per gli imputati nel processo congolese sull’uccisione dell’ambasciatore italiano. E lo fa non solo con le dichiarazioni, ma con un atto formale: oggi i legali della famiglia hanno infatti presentato al tribunale militare di Kinshasa, dove si è tenuta l’ultima udienza del processo ai sei presunti membri del commando armato che il 22 febbraio 2021 ha sequestrato e ucciso il diplomatico, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista del Programma alimentare mondiale Mustapha Milambo, la rinuncia alla costituzione di parte civile.
La richiesta è stata presentata sabato ed è stata accolta dai giudici. In contemporanea, la famiglia ha comunicato la propria decisione anche alla presidenza del Consiglio dei ministri, dato che lo Stato italiano ha a sua volta deciso di costituirsi parte civile, respingendo comunque l’idea di una giustizia che contempli l’esecuzione capitale in caso di condanna.
“Il sottoscritto, Salvatore Attanasio – si legge nel documento inoltrato dai legali della famiglia – in qualità di padre della vittima, l’Ambasciatore Luca Attanasio, visto che all’udienza dell’8 marzo 2023 tenutasi al tribunale militare di Kinshasa/Gombe il procuratore ha chiesto la pena di morte per gli imputati, nonostante la moratoria con la quale la Repubblica Democratica del Congo si impegna a non eseguire la pena di morte e visto che tale moratoria non garantisce che essa non sarà eseguita nel futuro, dichiara di rinunciare alla costituzione di parte civile nel dossier contro gli imputati”.
Una scelta compiuta consapevolmente, nel rispetto dei valori e della memoria del figlio, dopo che l’8 marzo scorso l’accusa aveva chiesto la condanna a morte per i sei imputati, Bahati Kiboko, Murwanashaka Mushahara André, Issa Seba Nyani, Amidu Sembinja Babu, Marco Prince Nshimimana (accusato di essere l’esecutore materiale del triplice omicidio) e di Amos Mutaka Kiduhaye, detto Aspirant, ancora latitante. Per quanto, in realtà, da circa vent’anni la pena capitale venga sì comminata, in casi di attentato alla sicurezza dello Stato, ma non applicata e commutata automaticamente in ergastolo, rimarrebbe una sentenza scritta da cui il legale della famiglia ha avuto il mandato di dissociarsi: nulla infatti può garantire che in futuro, magari con mutate condizioni politiche, la pena non possa venire eseguita.
Un atto che non può essere accettato nemmeno nominalmente, secondo Salvatore Attanasio, in quanto il figlio era un uomo dello Stato italiano, che non prevede la pena di morte, e anche perché le istituzioni italiane sono portavoce nel mondo della campagna per l’abolizione della pena capitale. Non solo: i valori umani e di fede a cui Luca Attanasio personalmente aveva improntato la sua vita sono incompatibili con tali condanne e per onorarne la memoria il padre ha fortemente voluto recedere dalla partecipazione della famiglia al processo.
Resta inoltre da considerare che la spada di Damocle della condanna a morte e una sua eventuale esecuzione futura – per quanto improbabile – costituiscono anche un pesantissimo condizionamento sugli imputati e su loro eventuali future dichiarazioni e testimonianze. Oltre alla questione morale, infatti, la famiglia, con i suoi legali, ha anche considerato che una possibile esecuzione toglierebbe a tutte le parti in causa la possibilità, in futuro, di ricorrere a nuove testimonianze da parte del presunto gruppo di fuoco. Dal canto suo, lo Stato italiano, che a sua volta si è costituito parte civile, ha chiesto che la condanna massima per gli imputati sia quella della carcerazione a vita.
Twitter: @simamafrica e @GianniRosini