di Emiliano Mandrone

Ogni volta che si introduce un’innovazione si fronteggiano forze conservatrici e riformatrici: è il caso anche del lavoro da remoto o smart working o lavoro agile. Chiamato e declinato in vario modo ma, sostanzialmente, la più grande occasione di cambiamento sociale, urbanistico ed economico di questi travagliati primi decenni del secolo.

Oltre dodici miliardi di dollari all’anno. È quanto costa lo smart working alla città di New York in termini di mancati ricavi per negozi, bar, ristoranti e varie attività secondo una ricerca dell’Università di Stanford. Ma se si cambia prospettiva vediamo come 2,5 milioni di lavoratori abbiano risparmiato a testa 5mila dollari… da che punto si guarda il lavoro da remoto, tutto dipende! Attualmente solo la metà degli impiegati di Manhattan si trova in ufficio in un giorno feriale, solo un impiegato su 10 è in ufficio cinque giorni alla settimana, così come uno su 10 lavora esclusivamente da remoto. Sarà questo il new normal? Il sindaco di New York è preoccupato dell’equilibrio dell’ecosistema della Grande Mela. E non solo lui.

Il Covid è stato un tiranno illuminato che è riuscito in un’operazione di pianificazione urbana radicale. In altre parole, un caso di serendipity: cercando una soluzione all’epidemia, abbiamo scoperto nuove forme di erogazione delle prestazioni lavorative. Il Covid ha sorpassato il nostro Legislatore, mostrando come il procrastinare il cambiamento organizzativo e l’introduzione della tecnologia sia sovente il prodotto dell’inerzia del sistema e l’insipienza di amministratori e datori di lavoro piuttosto che un limite tecnico. “Difficile che chi sia stato causa del problema sia parte della soluzione”, ammoniva Einstein e, infatti, in questi ultimi mesi si è assistito ad una riduzione del ricorso al lavoro da remoto (Inapp, 2023). È il colpo di coda di una mentalità adempimentale, novecentesca, che ha inteso la transizione digitale come la mera conversione di vecchie logiche.

C’è una lotta contro i mulini a vento, il tentativo di resistere al progresso. Le metropoli globalmente occupano circa il 2% della superficie terrestre, ma ospitano metà del genere umano e producono due terzi dell’inquinamento. Sono fornaci che si autoalimentano: bisogni, servizi, occupazione, nuovi bisogni, ecc. Le metropoli sono in overbooking: non c’è posto per tutti. Vale per Milano, Roma, Parigi, Londra…

Il lavoro da remoto è uno straordinario strumento di conciliazione spaziale, un moltiplicatore di possibilità. Eppure, ora che ci sono gli strumenti per non accalcarsi nei bus, per non perdere tempo nel traffico o vivere nel verde, si arma una controriforma conservatrice. A sostenere questa restaurazione analogica sono i fondi di investimento, le assicurazioni, le banche, i proprietari di attività consolidate che vedono a rischio le proprie rendite. E forse i partner infelici, come notano Colapesce e Dimartino: “ma io lavoro, per non stare con te!”.

Poi, si afferma una nuova geografia, definita non più in base alla storia, alle distanze o all’orografia, ma in base alla velocità di download, ai tempi di consegna di un pacco o al costo dell’energia. L’urbanizzazione inversa (Mandrone, 2020) cambierà il valore economico e le entrate fiscali dei territori. E, a cascata, modificherà la quantità e qualità dei servizi. Una redistribuzione a lungo anelata che ora fa paura.

Il lavoro agile non è nato oggi. Erano smart ante litteram i giornalisti che dettavano i loro articoli al telefono alla redazione, erano già lavoratori agili quei professori che correggevano i compiti dei loro studenti sul treno tornando a casa, erano inconsapevolmente lavoratori da remoto quegli architetti che disegnavano la nostra cucina dal loro tinello. La tecnologia ha esteso le possibilità di lavorare da remoto, lo ha reso popolare. Tornare indietro sarebbe una vera e propria regressione sociale, una occasione persa.

Il lavoro da remoto, per usare una felice sintesi, non l’hanno visto arrivare ma adesso è un’opzione disponibile, però non una conquista irreversibile. Va democratizzato perché spesso risulta un privilegio e reso strutturale nelle organizzazioni sociali e produttive. Serve una premialità per obiettivi, prevedere occasioni di socialità ed è necessario aggiornare il capitale umano, adeguare le norme, le case, i processi produttivi, gli ambienti lavorativi, ibridazione delle mansioni… insomma, bisogna imparare ad essere agili (Canal, 2023). I disagi transitori prodotti da un cambio di paradigma così forte possono essere mitigati, i contraccolpi attutiti, il commercio di qualità salvaguardato. Infine, per molte parti del nostro Paese potrebbe rappresentare una occasione unica per attrarre persone a lavorare da remoto dal Bel Paese oltre la stagione turistica, anche dall’estero; ma per farlo servono una buona connessione, servizi efficienti e un ambiente smart.

Tuttavia, per sfruttare a pieno le potenzialità del lavoro da remoto serve una infrastruttura produttiva idonea, capace di ibridare le mansioni, perché, per ora, c’è una forte polarizzazione che segue le direttrici dell’istruzione e della tecnologia. Infatti, ben il 50% dei colletti bianchi, ovvero professioni con capitale umano elevato, ha lavorato da remoto contro solo il 15% dei colletti blu, ad istruzione più bassa. Mentre se i settori a bassa innovazione tecnologica registrano livelli di lavoro da remoto bassi (20-25%), quelli che hanno innovato di più hanno livelli di utilizzo del lavoro da remoto superiori (55-60%). La Pubblica amministrazione è esattamente a metà strada (Mandrone, 2021). È il componente più lento che determina la velocità di un sistema, così come basta un solo collo di bottiglia per non avere un ambiente completamente digitale.

Serve, pertanto, sostenere la domanda di lavoro qualificata (che consente impieghi telelavorabili) per avere un sistema realmente smart. E ciò innescherà un circolo virtuoso in termini di occupazione tradizionale, benessere, ecologia…

J.M. Keynes sosteneva un secolo fa che quando le macchine ci avrebbero affrancato dalle incombenze materiali non sarebbe stato facile smettere l’abito da lavoro. La nostra stessa Costituzione vede il ruolo sociale strettamente legato allo status lavorativo. Così molti paesi stanno sperimentando progressive riduzioni dell’orario di lavoro proprio per prepararsi a ridurre gradualmente l’impegno lavorativo. Le parti sociali e il Governo stanno iniziando a ragionarci perché è strano che i tedeschi lavorino 1349 ore all’anno, i francesi 1490 e gli italiani ben 1668 (Ocse, 2022). Ciò crea il paradosso del lavoro senza occupati: si preferisce aumentare l’intensità di impiego (margine intensivo) di chi è già occupato (controintuitivamente, ben un occupato su 6 svolge in maniera sistematica lavoro straordinario) piuttosto che creare posti in più (margine estensivo). Ma la flessibilità data al sistema non doveva servire proprio a far emergere l’occupazione irregolare e redistribuire lavoro?

Bisogna tornare a sostenere la domanda di lavoro qualificata e rivendicare parte dell’aumento di produttività sotto forma di maggiori retribuzioni e più tempo libero nell’interesse – paradossalmente – proprio di chi è in cerca di lavoro.

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