“Il nostro settore è al collasso: quest’anno nessuna azienda chiuderà i bilanci in attivo. È un fatto senza precedenti”. La preoccupazione di Lorenzo Mattioli è palpabile. Il mondo delle imprese della ristorazione collettiva, che rappresenta in qualità di presidente di Anir Confindustria, è allo stremo: l’inflazione, soprattutto degli alimentari, ha fatto esplodere i costi mentre i prezzi per la fornitura dei servizi a ospedali e scuole sono bloccati. “Al contrario degli altri settori, come le costruzioni, per il nostro non sono previsti adeguamenti tariffari nei capitolati d’appalto: la situazione, così, si fa insostenibile”, aggiunge Mattioli.

Il problema principale è che le imprese del comparto lavorano soprattutto con le pubbliche amministrazioni. Su un mercato della ristorazione collettiva che vale 6 miliardi di euro, per 1 miliardo e 300 milioni di pasti erogati, più della metà del giro d’affari, circa 3,5 miliardi, viene realizzato dalle forniture a scuole, caserme, ospedali e università. Per questi servizi, i contratti stipulati non prevedono l’adeguamento automatico delle tariffe, che è lasciato alla discrezionalità della stazione appaltante. “Il rincaro dei prezzi ha superato in media la previsione di spesa iniziale fissata nei capitolati del 30%”, spiega il numero uno di Anir, “in pratica è come aggiudicarsi una gara al 70% del costo effettivo stabilito al momento della firma del contratto”.

Si tratta di una situazione generalizzata, che riguarda i grandi come Camst, il gruppo Pellegrini, Cirfood ma anche le realtà più piccole. “Tutte le aziende del settore della ristorazione collettiva sono in perdita. Il rischio chiusura è molto concreto”, secondo il presidente. Per questo Anir, che in settimana ha indirizzato una lettera aperta alla premier, Giorgia Meloni, ha indetto una mobilitazione nazionale per il 23 marzo a Roma. “Abbiamo cercato in tutti i modi di far inserire nella manovra di bilancio, durante la fase emendativa, e nel Milleproroghe una norma che prevedesse un adeguamento dei prezzi all’inflazione, ma la Ragioneria generale dello Stato ha fatto sapere che, siccome è l’ammontare dei rincari non è determinabile, non è in grado di stabilire quanto potrebbe costare un provvedimento di questo tipo” prosegue Mattioli. “Secondo le nostre stime servirebbero circa 200 milioni, considerando però un’inflazione superiore al 10%. Una cifra assolutamente sostenibile da parte dello Stato e che darebbe sollievo a un settore che dà lavoro a 187mila persone”.

A calcolare in modo preciso le risorse necessarie è il vicepresidente di Anir con delega alle relazioni istituzionali, Massimo Piacenti. “Su 3,5 miliardi di servizi appaltati alle pubbliche amministrazioni, circa il 25% è coperto con clausole di indicizzazione perché si tratta di capitolati fatti prima dell’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti che, al contrario di quello precedente, non prevede la revisione obbligatoria dei prezzi, o dopo il Covid, quando erano state introdotte alcune misure emergenziali. Stimiamo quindi che per garantire l’adeguamento al restante 75% servirebbero 220-230 milioni di euro”. La corsa dei prezzi incide infatti in modo particolarmente pesante sulle aziende della ristorazione: i margini sono bassi e il costo della manodopera elevato. “La nostra struttura di costi è piuttosto rigida” prosegue Piacenti. “Oltre alle spese per energia e utenze, ci sono le materie prime, in particolare gli alimentari, e la logistica. Un’altra voce molto importante è il costo del personale, che si avvicina al 50% del totale: il nostro, infatti, è un settore labour intensive. Inoltre, per gli appalti pubblici vige la “clausola sociale”, che comporta l’obbligo per l’impresa che subentra nell’appalto di assumere il personale alle dipendenze dell’azienda uscente”.

I margini del settore, poi, sono risicati. “Prima del Covid, l’Ebitda (il margine operativo lordo, ndr) era pari in media al 5%: significa che l’utile si attestava sullo zero virgola” precisa il vicepresidente dell’associazione. “Il tutto fornendo un servizio di grande qualità. Con l’inflazione ai massimi da quarant’anni, è chiaro che il banco salta”. La richiesta di Anir al governo è di introdurre una revisione automatica delle tariffe dei contratti agganciata alle variazioni degli indici sui prezzi al consumo dell’Istat. Revisione che, secondo l’associazione, dovrebbe essere inserita anche nella riforma del Codice degli appalti, la cui approvazione è in dirittura d’arrivo. “Noi chiediamo che l’adeguamento sia automatico e obbligatorio” sottolinea Piacenti. “Siccome si tratta di una legge delega, il parlamento ha lasciato al governo la decisione di stabilire le soglie oltre le quali scatta la revisione dei prezzi. Al momento, la forchetta è compresa tra il 2 e il 5%. È una sorta di franchigia: la possibilità di ottenere un adeguamento delle tariffe si avrebbe solo per la quota eccedente. Per un settore che ha un margine del 5%, questa soluzione è inadeguata. Senza contare che spesso i nostri contratti sono pluriennali e, nell’ipotesi migliore un cui l’asticella venisse fissata al 2%, anche con un’inflazione al 2%, l’obiettivo perseguito dalla Banca centrale europea, la revisione non scatterebbe”.

Codice degli appalti a parte, Anir chiede al governo un intervento immediato. “Dopo lo shock del Covid che ha terremotato i bilanci delle imprese, nel 2021 ci stavamo riprendendo. Poi, però, è arrivato il caro prezzi. Certo, l’inflazione generale sta lentamente scendendo, ma a febbraio l’indice per il carrello della spesa ha segnato un +13%. Bisogna fare una cosa molto semplice: a costi variabili prezzi variabili” conclude Piacenti.

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