Un Oscar per le qualità di un film e uno per il valore del messaggio di indennizzo o risarcimento. Andrebbe lanciata con qualche hashtag accattivante l’idea che Paolo Mereghetti espone pacatamente sul Corriere, dopo la messe di Oscar al multiverso sgangherato, sciocchino e stancante di Everything everywhere all at once (EEAO). Nel momento in cui, con le mani tra i capelli, non si riesce a comprendere quale sia la statuetta più strampalata regalata ai The Daniels, e al loro inconcludente guazzabuglio yellow washing srotolato come un videogame e infarcito di hot dog e dildo (a noi va di segnalare quella per la miglior regia scippata a Spielberg di The Fabelmans) emerge un dato inquietante. Proprio come afferma Mereghetti “la distinzione” tra Oscar che “vengono dati cercando di rispettare le qualità in campo e quelli che invece vogliono contenere un messaggio, un qualche tipo di risarcimento o di indennizzo” è apparsa più che evidente, addirittura estremamente “violenta”. Si tratta di una forzatura politica, socioculturale, che va in soccorso alla cosiddetta inclusività per la quale l’Academy ha modificato di recente le proprie regole e per la quale ti ritrovi davanti agli occhi all’improvviso mentre guardi un film, come fosse un panda a passeggio nel corso principale di Tortona, un’infermiera asiatica nell’appartamento fortezza del protagonista di The Whale (farla sudamericana chissà, forse) o un transgender che passeggia in un viottolo di Non così vicino (ricordo che ne Il mondo secondo Garp secoli fa c’era ben più grazia e naturalezza sul tema).
Insomma l’eccezionalità per molti dolorosa di un’esistenza in trasformazione, per altri normalmente superata dal tempo e dalla storia – la comunità asiatica, trionfatrice in EEAO nel mondo, non ha certo bisogno di inclusività perché si è ritagliata il suo spazio economico nell’Occidente e in Africa da decenni – diventano paradigmi creativi inequivocabili e intransigenti. Se non inventi una storia inclusiva non banchetti ai premi e soprattutto puzzi di reazionario. Insomma: la libertà espressiva a Hollywood (e non solo lì) ha da un po’ di tempo dei limiti. E paradossalmente, a guardare il palmares di ieri, sembra che l’asian power abbia sostituito, come fosse un effetto tribale modello Afghanistan post ritiro dei russi, il black power in voga negli ultimi anni, in questa gara al risarcimento, appunto, all’indennizzo per qualcosa di rubato da un qualcun’atro che non si sa bene chi sia (ma gli Oscar, tanti, a Balla coi lupi, Figli di un dio minore, 12 anni schiavo, ad esempio, non esistono più? E Parasite, che tra l’altro è un film formalmente ineccepibile e superbo?).
Così in mezzo ad una serata che ricorda di assegnare Oscar anche ai salvatori del box office internazionale (santo, santo, box office nel post Covid) come Top Gun:Maverick e Avatar: Le vie dell’acqua (ma Cruise e Cameron non c’erano alla cerimonia, ndr) s’impone con irruenza l’indennizzo sulla qualità. Ad ogni modo, sarà che come dice uno dei due Daniels, come nemmeno fosse Albert Einstein, il mahatma Gandhi, o una più prosaica Elly Schlein: “Il mondo sta cambiando”. Ebbene EEAO in mercati occidentali come in Francia non è arrivato al mezzo milione di euro, in Italia ha faticato a superare i 300mila (è fuori da ottobre ndr), mentre in Gran Bretagna è 38esimo con 6 milioni di sterline, metà degli incassi de Gli spiriti dell’isola, opera magnifica sacrificata sull’altare del Dolby Theatre per risarcire i non inclusi di turno. Questo per dire che se EEAO fosse un fenomeno di costume già preesistente qualcosina oltre le briciole di un mercato post Covid già avarissimo di risultati lo avrebbe raccolto. Insomma, stiamo un attimo attenti perché non ci vuole nulla a ritrovarsi con il cancellare e maledire la classicità per sostituirla con una più governabile cultura spettatoriale della frammentarietà; come senza più celebrati capolavori universali ma zeppi di bizzarre eccentricità politicamente correttissime.