Nella riunione di giovedì prossimo la Bce potrebbe fermare l'incremento del costo del denaro. Musica per le orecchie degli investitori e prospettive di un qualche sollievo per chi ha mutui a tasso variabile o si accinge a sottoscriverne uno nuovo. Dallo scorso luglio, quando la Bce ha cominciato ad aumentare il costo del denaro, le rate mensili di un mutuo a tasso variabile di importo medio sono salite di circa 200 euro al mese, erodendo il potere d'acquisto delle famiglie già infiacchito dall'inflazione
Fermi tutti. Uno degli effetti del crac della banca californiana Svb potrebbe essere quello di “paralizzare” le due più grandi banche centrali del mondo, Federal Reserve e Banca centrale europea. Di fronte a mercati scombussolati dalle onde d’urto del fallimento alzare ulteriormente i tassi potrebbe essere una mossa improvvida. E così, il rialzo di un altro mezzo punto dato quasi per certo nella riunione della Bce di giovedì prossimo viene ora messo in dubbio. Secondo gli analisti di Deutsche Bank la Bce giovedì accantonerà l’idea di alzare i tassi di interesse di mezzo punto percentuale per limitarsi ad un ritocco dello 0,25. Così come ci si attende un approccio più cauto da parte della Fed. Lo scenario più probabile sembra ora quello di una pausa forse per l’intero 2023 della campagna aggressiva dei rialzi del costo del denaro. Senza scartare l’ipotesi di un taglio del costo del denaro già quest’anno. Le probabilità che la Federal Reserve statunitense non alzi i tassi di interesse alla prossima riunione di marzo sono ora al 66%. La banca d’affari Goldman Sachs ha detto oggi di no attendersi più alcun aumento alla riunione della Fed del prossimo 22 marzo. Gli analisti della banca giapponese Nomura prevedono anzi che la Fed taglierà i tassi di interesse dello 0,25%. Musica per le orecchie degli investitori e prospettive di un qualche sollievo per chi ha mutui a tasso variabile o si accinge a sottoscriverne uno nuovo. Dallo scorso luglio, quando la Bce ha cominciato ad aumentare il costo del denaro, le rate mensili di un mutuo a tasso variabile di importo medio sono salite di circa 200 euro al mese, erodendo il potere d’acquisto delle famiglie già infiacchito dall’inflazione.
Le probabilità che la Federal Reserve statunitense non alzi i tassi di interesse alla prossima riunione di marzo sono ora al 66%. La banca d’affari Goldman Sachs ha detto oggi di non attendersi più alcun aumento alla riunione della Fed del prossimo 22 marzo. Gli analisti della banca giapponese Nomura prevedono anzi che la Fed taglierà i tassi di interesse dello 0,25%.
Il collasso di Svb ha portato sotto i riflettori uno degli effetti collaterali dell’aumento dei tassi, forse sinora un poco sottostimato. In generale tassi più alti tendono ad accresce i ricavi delle banche e per questa ragioni i titoli bancari hanno avuto buone performance negli ultimi mesi. Aumenta infatti la differenza tra gli interessi che le banche pagano ai depositanti e quelli che fanno pagare sui prestiti che concedono. Tuttavia il rialzo dei tassi riduce il valore di circolazione dei titoli di Stato (ed obbligazionari in genere). Nessun problema se i titoli vengono portati a scadenza (il rimborso è pari al valore nominale) ma un potenziale problema se si presenta la necessità di vendere in anticipo.
Gli investimenti in bond possono essere contabilizzati in diversi modo ma una perdita del loro valore può produrre perdite e quindi incidere sul capitale della banca obbligandola a rafforzarlo. Secondo dati della Federal Deposit Insurance Corporation (Fidc) le banche americane hanno a bilancio perdite potenziali per 620 miliardi di dollari, ovvero su asset il cui valore è calato in termini di prezzo ma che non sono stati ancora venduti. Per alleviare rischi e problemi la Fed ha aperto la possibilità per le banche in difficoltà di ottenere liquidità con prestiti della durata massima di un anno dando in garanzia titoli di Stato, che saranno valutati al loro valore nominale (e non quello attuale di mercato). Ma lo stesso discorso si può traslare sulle banche europee ed italiane. Ieri Unicredit ha perso il 9%, Intesa Sanpaolo il 6%, Banco Bpm l’8%. I pesanti cali registrati dai titoli bancari europei sembrano essere riconducibili a queste dinamiche più che all’esposizione, molto modesta se non inesistente, verso l’istituto californiano fallito. Secondo l’agenzia di rating Moody’s (che fino a giovedì attribuiva a Svb un voto di affidabilità medio alto, ndr), “Le grandi banche europee sono generalmente ben posizionate per evitare la necessità di vendere le loro obbligazioni in perdita”. Moody’s ha osservato che un terzo dei titoli di stato detenuti dalle banche europee scadrà entro i prossimi due anni, garantendo un continuo afflusso di liquidità e riducendo la necessità di vendere asset.
Sarà ora compito, non semplice, delle banche centrali soppesare la gravità di questi rischi in rapporto al tentativo di ridurre l’inflazione. Peraltro, all’interno della Bce iniziano a circolare tesi discordanti sulla lettura del fenomeno inflazionistico adottata sinora. In particolare la corsa dei prezzi sarebbe riconducibili in primo luogo ai comportamenti delle aziende che hanno alzato i prezzi più dell’incremento dei costi che sopportano. La riunione di giovedì prossimo si annuncia calda. I mercati pregustano una marcia indietro.