di Pietro Francesco Maria De Sarlo
Il 15 settembre 2008 la Lehman Brothers fallì. All’epoca il mantra europeo di risposta alla crisi era che questa era una crisi americana e che non riguardava l’Europa. L’allora primo ministro britannico Gordon Brown tentò inutilmente di spiegare a quelli che erano i suoi colleghi europei che più della metà dei titoli subprime era finito nelle banche europee, specialmente tedesche e francesi, e che questi investimenti si erano volatilizzati; ma, ancora un anno dopo, l’allora ministro delle Finanze tedesco Peter Steinbruck del governo Merkel in Parlamento giurava che non c’era nulla da temere: ‘Il nostro sistema è sano. E’ quello americano che è malato’.
La crisi americana diventò inevitabilmente e immediatamente una crisi del sistema bancario europeo quando il governo greco di Andreas Papandreu dichiarò che avevano rettificato il rapporto deficit/Pil dal 6% al 13%. Forse le cose sarebbero andate diversamente se le banche tedesche non fossero già sull’orlo della bancarotta per i subprime e se non avessero prestato, insieme a quelle francesi, una marea di soldi ai greci attratti dal tasso di rendimento elevato e correlato a un basso rischio poiché si pensava che uno stato dell’euro non avrebbe potuto fallire, cosa smentita da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, e si partì per il precipizio.
Non potevano quindi aggiungere al disastro subprime l’insolvenza greca e le sue conseguenze. Le banche italiane erano le uniche a essere sfiorate marginalmente da entrambe le crisi. Ma anche gli italiani furono chiamati a fornire denaro che non finì ai greci, ma alle banche tedesche e francesi. Il duo Merkel e Sarkozy impose quindi un piano di salvataggio, meglio dire di sanzioni alla Grecia con effetti disastrosi. Altro che sanzioni alla Russia! L’Istituto tedesco Esmt stimò che il 95% dei 216 miliardi ricevuti come salvataggio dei primi due pacchetti di emergenza furono utilizzati per pagare debiti e interessi al Fmi e alle banche. Idem il terzo accordo che erogò 8,5 miliardi di euro ai greci, che per averli tagliarono per la tredicesima volta le pensioni.
A causa della riduzione dei tassi del debito pubblico tedesco legato al salvataggio delle banche, la Germania, secondo il Leibniz Istitute, risparmiò cento miliardi di euro di interessi e la Bce e il Fmi guadagnarono 8 miliardi di interessi pagati dai greci. I programmi della Troika riguardarono le pensioni, poi i lavoratori pubblici, poi la spesa sociale e sanitaria, poi l’aumento dell’Iva come misura di riequilibrio di emergenza. Nel 2017 l’istituto tedesco Imk rese noto che le imposte sui redditi più bassi furono aumentate del 337% contro il 9% di quelli più alti.
Conseguenze ci furono anche per l’Italia. I governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni attuarono pedissequamente le prescrizioni contenute nella lettera Draghi-Trichet del 5 agosto 2011. Le conseguenze non sono state certo il risanamento dei conti pubblici, ma un loro aggravio; tanto che più volte Mario Monti, durante il governo Draghi, ha preso pubblicamente e più volte le distanze da quelle misure.
Perché rivango queste cose? Perché alla fine a pagare, invece dei vertici del sistema bancario americano ed europeo, furono i greci, che avevano sì delle responsabilità per la situazione economica e finanziaria del loro paese, ma indubbiamente inferiore a quelle di chi aveva generato la crisi. La vera colpa dei greci fu quella di essere l’anello più debole della catena e di avere anche velleità di rispetto della democrazia.
Ora c’è il fallimento della Silicon Valley Bank. Molte delle cose che sento dire dagli esperti mi paiono un déjà vu. C’è un processo di rimozione collettiva dei fatti greci e i liberisti prendono cappello appena si ricorda quella vicenda. Ma i greci hanno già dato, ora a chi tocca? Siamo sicuri che non tocchi a noi?