Nel numero di marzo del mensile diretto da Peter Gomez, la testimonianza di una professionista d'urgenza che per sette giorni ha raccontato la sua quotidianità attraverso degli audio Whatsapp
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I turni infiniti. I pazienti ammassati gli uni sugli altri per giorni. Gareggiare contro il tempo e perdere la maggior parte delle volte. Le notti in piedi e i riposi che saltano perché non c’è nessuno a sostituirti. La paura di sbagliare, la paura di fare male e di farsi del male. Le barelle appiccicate: senza privacy per chi deve fare i propri bisogni a letto. Senza dignità per chi muore. Le minacce continue: dei pazienti, dei familiari dei pazienti, della direzione sanitaria. La voglia di mollare che ti insegue ogni giorno. Arianna ha 42 anni e fa la dottoressa nel Pronto soccorso di un ospedale del Nord Italia. Dice che il suo lavoro non ha più niente di umano. Per dieci giorni ci ha inviato degli audiomessaggi via Whatsapp per provare a raccontarlo.
Domenica, ore 20.50 – In macchina
Va bene, parlo. Tanto peggio di così non può andare. Ma devo restare anonima perché la direzione non approverebbe mai. Loro vogliono che sui giornali escano solo le cose belle. Infatti non cambia mai niente. Ora sono distrutta, domani inizio.
Lunedì, ore 9.50 – Mentre va a fare la spesa
Non so bene da dove partire. Ieri ho attaccato al pomeriggio. Metto piede in ambulatorio, vedo la scia di pazienti e già mi stavo per mettere a piangere. Prendo consegna e ci sono 24 persone visitate, di cui 18 da ricoverare. C’è gente che aspetta il posto letto da 48 ore. Almeno. C’è anche chi è lì da tre giorni. In più ce ne sono altri sei da vedere. Anche loro aspettano da un po’. Il mio collega del turno prima è a pezzi. Ci credo, è un inferno. Chiamiamo la direzione sanitaria, ma la risposta è la solita: non ci sono posti. Noi proponiamo di andare in appoggio in un altro reparto. Niente, per loro è una bestemmia. Suggeriamo di mettere i pazienti stabili in corridoio. Di nuovo è un no. “Non è etico”, dicono. (Arianna sospira). Che pazienza ci vuole. Non hanno mai messo piede in Pronto soccorso per vedere che cazzo di disagio c’è, neanche per il Covid. E ora vengono a dirmi che non è etico. Invece è etico tenere un paziente di 95 anni per tre giorni in Pronto soccorso. Quello è etico. (Sospira di nuovo).
Ore 9.55 – In macchina
Il mio collega se ne va. Resto da sola e scelgo di partire guardando le persone in attesa: dico di portarmeli uno dietro l’altro e di non aspettare che li chiami. Sempre una catena di montaggio, ma è sopravvivenza. Intanto che scrivo le prescrizioni e l’infermiere fa i prelievi, piano piano mi riguardo i pazienti che sono già in carico. Perché se devono essere ricoverati devo vedere come va la terapia. C’è gente che aspetta di essere vista da due ore ed è incazzata come una biscia. Giustamente. Visito questo povero cristo di 70 anni con una colica renale che ha aspettato un’ora e mezza col male. È incazzato nero. Ha ragione. Ma il collega del turno prima era in una situazione di merda peggio della mia, cosa gli posso dire. Visti tutti quelli in attesa, spero non arrivi nessuno per almeno mezz’ora e decido di guardare bene quelli che ho già. È come aprire il vaso di pandora. Ci sono anziani in attesa da 72 ore che devono fare le terapie. E c’è da assistere chi va cambiato. Un disastro. Le barelle sono tutte appiccicate. Non ci si passa. Ci saranno dieci centimetri tra una e l’altra. È brutto da dire, ma se uno fa la cacca è il disastro. Se è allettato, l’infermiere e l’Oss spostano una barella nel corridoietto a fianco, perché se no non ci passano, e mettono più in mezzo alla stanza la barella di chi va cambiato. Non c’è nessuna privacy, solo una tendina. Io cerco di sistemare la situazione come posso. Dimetto i dimissibili: loro sono contenti di tornare a casa, io spero solo di non aver fatto dimissioni improprie. Poi mi metto a guardare i nuovi in arrivo. Tra questi c’è una ragazza di 35 anni con la leucemia. Aspetta, ora devo scendere dalla macchina.
Ore 10.15 – Dopo aver fatto la spesa al volo
Allora arriva questa ragazza con la febbre. Per chi ha la leucemia la febbre non è un bel sintomo. E comunque va isolata. Peccato che io abbia un solo box per isolare e c’è già dentro un signore con un sospetto vaiolo delle scimmie. Eh. Quindi? Chiamo una delle dirigenti per dire che questa povera ragazza deve andare in isolamento in un altro reparto. Non la posso tenere lì. Succede un casino. Prende la qualunque. Peccato che, ovviamente, non c’è posto da nessuna parte. E io nel frattempo cosa cavolo devo fare? Sposto quello col vaiolo delle scimmie, bonifico il box isolato e poi ci metto lei, almeno in attesa degli esami. Però, è brutto da dire, quello col vaiolo delle scimmie dove lo metto? Abbiamo libero solo una specie di sgabuzzino e lo spostiamo lì. Facciamo tutto io, l’infermiere e l’Oss in turno. Da soli. Intanto il telefono suona all’impazzata. I familiari vogliono sapere dei parenti, giustamente, ma io non ho il tempo fisico. Rispondo, cerco di spiegare, ma a volte non ce la faccio. Intanto continuano a caricarmi altri pazienti. A metà pomeriggio volevo urlare. Chiamo di nuovo la direzione sanitaria: non è possibile che nel nostro ospedale non ci sia un posto letto per una ragazza di 35 anni con la leucemia. Non è possibile. Arrivano gli esami e l’infezione è confermata. Finisco il turno e vado a casa. Per lei nessuno ha ancora trovato un posto letto.