Dopo la lettera-ultimatum con cui quasi 300 professionisti della Toscana hanno minacciato di dimettersi se non dovessero cambiare le cose, alcuni di loro raccontano a ilfattoquotidiano.it come sono costretti a lavorare ogni giorno: dalle barelle ammassate alla scarsa igiene e le attese infinite. Le testimonianze dall'ultima frontiera della sanità pubblica
“Non vogliamo che ci diano più soldi. Vogliamo non sentire più un paziente lamentarsi della sua sofferenza, dopo che da due giorni è sdraiato su una barella in corridoio perché non ci sono posti letto nei reparti”. Paolo (nome di fantasia) è un medico toscano di quasi cinquant’anni. Circa 16 anni fa ha scelto di lavorare in Pronto soccorso. Da allora ha assistito al progressivo demansionamento del suo ruolo e allo smantellamento graduale della medicina d’urgenza. È uno dei firmatari della lettera-ultimatum inviata a governo e Regione per denunciare la crisi in cui versano i Pronto soccorso toscani e di tutto il Paese. “O le cose cambieranno o ci dimetteremo in massa”, hanno scritto 288 camici bianchi, rappresentativi del 90% dei professionisti dei reparti di emergenza-urgenza della Regione. Un documento che non è solo una protesta, ma un manifesto nato dal basso per portare l’attenzione sulla mancanza di personale, la carenza di posti letto e l’assenza di strutture di medicina territoriale in grado di diminuire l’afflusso. I 288 medici hanno scavalcato politica e sindacati per chiedere condizioni di lavoro sostenibili e standard di cura dignitosi per i loro pazienti. E ora non vogliono che la luce si spenga di nuovo.
“Non posso dire il mio vero nome, né l’ospedale in cui lavoro, altrimenti domani arriva la direzione a mettermi pressione tramite il primario. I direttori sanitari non vogliono che vengano fuori i problemi, rischierebbero di fare una figuraccia politica”. Paolo spiega al fattoquotidiano.it che, a suo parere, la strada è ormai tracciata: “La sanità pubblica raggiungerà un livello talmente basso da rendere automatica la definitiva privatizzazione. Sta già avvenendo”, dice. Per questo l’aumento di stipendio, individuato dalla politica come la soluzione per mettere a tacere le proteste, è visto solo come un contentino: “Non è che se mi dai mille euro in più sto zitto. Non risolvi la mancanza dei posti letto, o dei farmaci, alzandomi la paga. Tantomeno riduci gli accessi impropri senza filtro ai pronto soccorso”, continua il medico. “La minaccia di dimettersi in massa, che abbiamo inviato alle istituzioni, è una provocazione. Amiamo il nostro lavoro. Ma soprattutto lo conosciamo, a differenza dei direttori sanitari. Loro non hanno mai esercitato, sono lì grazie a una nomina politica. Questo ha trasformato la sanità in un tema squisitamente elettorale. Dopo aver ottenuto il loro piatto caldo, se ne sono fregati”, attacca.
Sono i medici, insieme agli infermieri e agli Oss, a fronteggiare la crisi tutti i giorni. Quotidianità fatta di pazienti, soprattutto anziani e cronici, lasciati anche per giorni sulle barelle nei corridoi, in attesa di un posto letto che non c’è. Le persone vanno incontro a deliri da ospedalizzazione, a piaghe da decubito e versano in condizioni igieniche scarse. Inoltre, non hanno accesso al vitto. Questo, infatti, non è previsto dai pronto soccorso perché sono pensati per essere unità operative in cui i pazienti non dovrebbero rimanere a lungo.
“Se non erano i parenti a provvedere al cibo, il nostro ospedale offriva ai malati dei panini con il prosciutto. Davano il pane con la crosta a gente che non aveva neanche i denti o che aveva difficoltà a deglutire”: a parlare è Valerio. Anche lui ha scelto l’anonimato per proteggersi dalle ritorsioni. Lavora in un’altra provincia rispetto a Paolo ma, al di là di alcune specificità, la situazione è la stessa. “Noi abbiamo uno stanzone, una sorta di limbo, con 45 persone sdraiate in barelle a poca distanza l’una dall’altra. Neanche un metro – racconta Valerio -. Si lamentano e chiedono aiuto a infermieri e Oss, il cui carico di lavoro è già insostenibile. Deontologicamente parlando è tremendo assistere. Non sono cose degne da paese del G7”. Ogni ospedale prova ad arrangiarsi e a dare qualcosa da mangiare a chi sta aspettando un posto letto nei reparti. Anche perché l’alimentazione è importante per la cura. Perlopiù riescono a distribuire qualche cracker o delle fette biscottate con un tè. A Firenze c’è chi, quando è di turno, ordina le pizze da asporto e distribuisce le fette ai pazienti presenti. “Se i soldi, invece di proporre di darli a me per comprare la mia omertà, li dessero al sistema, non saremmo costretti a questo”, sbotta Valerio. Anche perché a rimetterci sono soprattutto i pazienti. “Le loro condizioni sono peggio delle nostre – continua -. Noi dopo un turno sfinente e svilente torniamo a casa. Loro no”.
Si lavora tanto, male, in luoghi non adeguati. L’errore è dietro l’angolo. Alla frustrazione si aggiunge il fardello di poter avere preso una decisione sbagliata. Anche Mario (nome di fantasia) ha firmato la lettera: “Dentro i pronto soccorso c’è gente bravissima, professionalità che ci invidia il mondo intero. Ma ci stanno costringendo a rinunciare”. Mario porta la sua esperienza di medico d’emergenza-urgenza da oltre 16 anni. “Rispetto a quando ho iniziato, la situazione è molto peggiorata. Ora ai pronto soccorso arriva tutta la richiesta della sanità pubblica, senza filtro”. Spiega che non gli fa paura lavorare, fare le notti o i weekend. “Certo, una volta vorremmo poter finire le ferie di un anno”, specifica, “ma soprattutto vogliamo fare il nostro lavoro. Ovvero i medici d’emergenza. Il nostro ruolo dovrebbe essere quello di stabilizzare le urgenze. Invece, la maggior parte del tempo facciamo altro. Rimandiamo cose che dovrebbero essere priorità per noi. Ci occupiamo di pazienti cronici che hanno un dolore addominale da 10 anni e arrivano in pronto soccorso perché non sanno dove andare”. Ed è qui che il privato intercetta il bisogno. Dove non arrivano i medici di base e la medicina territoriale, arriva la visita domiciliare a pagamento, per chi può permettersela. Per gli altri, c’è il pronto soccorso. Praticamente gratis e sempre a disposizione.
Così, di anno in anno si moltiplicano i casi di camici bianchi che mollano. Chi passa al privato, lavorando di meno e guadagnando di più, chi prova a cambiare ospedale, e chi decide che preferisce fare tutt’altro e si trasferisce in un altro reparto. Ad aprile nell’ospedale di Paolo andranno via altre quattro persone. La carenza di personale è gravissima, spiega, soprattutto alla luce di tutte le mansioni extra che il sistema sanitario delega ai medici di pronto soccorso. “I professionisti vanno in burnout dopo neanche 20 anni di attività e si licenziano. Magari vanno in Veneto a fare i gettonisti, pagati a peso d’oro con i soldi pubblici”, si lamenta Paolo. Chi resta prova a resistere, prende tempo per vedere se ci saranno dei cambiamenti. Ma, almeno una volta, ci ha già pensato a mollare tutto. Il rischio è che a lavorare nell’urgenza restino solo persone che in realtà vorrebbero fare altro. A cui “tocca”, però, fare questo, come dice Paolo: “Alla prima occasione cercheranno altro e andranno via. Non resterà più nessuno”, conclude.
I pronto soccorso sono diventati la prima frontiera della sanità pubblica. E chi ci lavora è d’accordo sul fatto che perdere questa battaglia avrebbe ripercussioni gravi su tutto il sistema. “Nei Paesi in cui non c’è la sanità pubblica è un disastro”, riflette Mario, ricordando le sue esperienze di cooperazione all’estero. E conclude: “Con la pandemia ho pensato che si fosse capita questa cosa. Senza il Sistema Sanitario Nazionale sarebbero morte chissà quante persone. Invece, sono passati tre anni e non è cambiato nulla. È tutto sempre meno sostenibile. Rimanere a lavorare in condizioni come queste è masochismo. Non basterà un aumento di stipendio per tenere insieme i cocci”.