Al Consiglio di amministrazione della società pubblica 3-I il manager Claudio Anastasio ha inviato una mail per difendere il proprio operato copiandola, sostituendo il termine “fascismo” con “3-I”, dal tragico discorso con il quale Benito Mussolini nel gennaio 1925 rivendica l’attività squadristica e l’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti: “Ebbene, io dichiaro qui, al cospetto di Voi, ed al cospetto di tutto il governo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità di 3-I (politica! morale! storica!) di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se 3-I è stata una mia colpa, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho alimentato nel mio ruolo”.
Universalmente non si giustifica una propria condotta ricorrendo alla rivendicazione di un omicidio nefando che, in quel 1925, segna il pieno passaggio alla dittatura. Dovrebbe essere sempre presente una simmetria tra la difesa del proprio operato e le parole che si impiegano. Paradossalmente, più le argomentazioni e i toni sono sproporzionati più l’effetto persuasivo risulta debole.
Dinanzi alle serpeggianti frizioni (tra le altre quella con il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, legate alla gestione informatica dell’istituto pensionistico ad appannaggio di 3-I) Claudio Anastasio avrebbe potuto ricorrere a Cartesio, quando distingue tra operare su certezze e muoversi su congetture, o, per le velleità superomistiche che traspaiono dal testo, avrebbe potuto funzionare anche Nietzsche. Se in un momento di difficoltà si mostra un rigorismo da pensiero unico si sprofonda nell’autoritarismo e si perde l’autorevolezza.
Resta lo sconforto che un manager della Repubblica non trovi di meglio che ricorrere alle parole di un criminale di guerra, per giunta senza citarlo, nascondendosi dietro a un dito. È un po’ la foglia di fico con la quale Fratelli d’Italia copre la sua innata simpatia per il Ventennio e il neofascismo che gli è succeduto. Nella sua recente visita al museo della Shoà di Gerusalemme il presidente del Senato, Ignazio La Russa, si è limitato a dire “mai più un odio così bestiale”, senza dare seguito alle parole pronunciate vent’anni fa da Gianfranco Fini che definì il fascismo “male assoluto”. Il buon esempio vien dall’alto.