Sostenere che la polizia italiana abbia concorso alla “deportazione” di Alma Shalabayeva e della figlia Alua è “radicalmente insostenibile“. È quello che scrive la Corte d’appello di Perugia nelle motivazioni con cui ha assolto i poliziotti finiti protagonisti, loro malgrado, del caso Shalabayeva. Per quella vicenda finì a giudizio anche l’ex questore di Palermo, Renato Cortese, che oggi guida l’ufficio ispettivo del Viminale. Cortese è il superpoliziotto che nel 2006 riuscì ad arrestare il boss Bernardo Provenzano: per il caso Shalabayeva venne condannato a 5 anni in primo grado nel 2020. L’assoluzione sarebbe arrivata solo nel giugno dell’anno scorso.
Ora in 345 pagine in cui la corte presieduta da Paolo Micheli fa a pezzi le condanne del primo grado di giudizio. Gli imputati erano accusati di sequestro di persona per le presunte irregolarità legate al rimpatrio di Alma Shalabayeva, espulsa verso il Kazakhstan nel 2013 insieme alla figlia Alua e poi entrambe tornate in Italia. Tra loro gli ex capi della squadra mobile e dell’ufficio immigrazione della questura di Roma, cioè Cortese e Maurizio Improta. Assolti insieme all’allora giudice di pace Stefania Lavore – alla quale comunque non era stato contestato il sequestro di persona – e Luca Armeni, Francesco Stampacchia, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni.
In pratica nel maggio del 2013 venne perquisita una villa a Roma dove i poliziotti pensavano di trovare Ablyazov. Trovarono, invece, la moglie che si fece riconoscere con un documento contraffatto intestato ad Alma Ayan. Per questo motivo fu accompagnata al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria. Da lì venne rimpatriata insieme alla figlia con un aereo dell’ambasciata kazaka. La donna non presentò mai documenti autentici né chiese asilo politico: ecco perché quell’operazione di polizia, assicurano oggi i giudici, era completametne legale.
“Dove sono il nascondimento, il sotterfugio, la volontà di trarre in inganno, se solo un minus habens avrebbe potuto non comprendere che quella donna era senz’altro la compagna del latitante sfuggito alla cattura, già identificata in passato come Alma Shalabayeva ma che ora insisteva pervicacemente nel sostenere di chiamarsi Alma Ayan, usando un passaporto con pagine strappate, caratteri non originali e strafalcioni in inglese?”, scrivono i giudici della Corte di Appello di Perugia nelle motivazioni della sentenza. “Si vuole forse ipotizzare che qualcuno, dalla lettura di quei dati, avrebbe compreso che Alma Ayan era la moglie dell’Ablyazov, come scritto a chiare lettere, mentre sfuggendogli il senso di quella stessa Alma Shalabayeva ne era la convivente, perché così avevano detto dall’ambasciata kazaka, dunque doveva trattarsi di un’altra persona? E il qualcuno in questione avrebbe inteso quale semplice coincidenza il fatto che il ricercato si relazionasse soltanto con donne nate a Ferragosto del ’66 ? Pare alla Corte – sottolineano i giudici – in buona sostanza, che prima ancora di essere infondato questo profilo dell’accusa sia oggettivamente lunare e incomprensibile, già in termini di elementare buon senso”.
La corte prosegue scrivendo che “non vi erano motivi di sorta perché gli imputati si orientassero dolosamente, e addirittura all’unisono, per danneggiare la Shalabayeva. Qualcosa di sconosciuto agli odierni imputati, al contempo di perfettamente noto alla persona offesa e ai suoi difensori (il permesso di soggiorno lettone), avrebbe chiuso la storia in quattro e quattrotto – si legge nelle 345 pagine di motivazioni – evitando presunti sequestri di persona, sprechi di inchiostro in sede politica e giornalistica, da ultimo anche anni di processo, torniamo a quanto accadde veramente”.
E ancora Shalabayeva “pur essendo in grado di documentare la propria legittima permanenza in Italia con l’esibizione del permesso di soggiorno lettone, si astenne dal farlo (per motivi più o meno giustificabili, ma comunque così decise di determinarsi); ancora a monte, essendo arrivata in Italia a settembre 2012, non palesò mai l’intenzione di chiedere asilo – scrivono i giudici d’Appello – che invece aveva ottenuto un anno prima nel Regno Unito (anche qui non interessa la ragione, ma non sembra peregrino ipotizzare che non volle trovarsi in condizione di dover tornare in Gran Bretagna, territorio dal quale il marito in primis preferiva ormai tenersi alla larga), preferendo “nascondersi” dietro l’identità di Alma Ayan e iscrivere la figlia a scuola con il nome di Alua Ayan; non mutò atteggiamento neppure quando vide per facta concludentia che il permesso di soggiorno lettone aveva funzionato appieno per Bolat Seralyev, tornato a casa nel giro di poche ore”. Shalabayeva “continuò a dire di chiamarsi Alma Ayan pur quando era emerso il riscontro della Polaria all’assunto della falsità del passaporto centrafricano, non essendo in alcun modo credibile che la sera del 29 maggio decise di rivelare tutta la verità a una dozzina di persone (sul punto, è stata smentita anche da coloro che sono stati ritenuti estranei alle ipotesi di reato qui contestate); non chiese asilo neppure durante la permanenza al Cie, e incontrando l’avvocato. Federico Olivo non affrontò l’argomento, né gli fece parola di cosa, a suo dire, aveva raccontato la sera precedente al personale dell’Ufficio Immigrazione; si presentò ancora come Alma Ayan al Giudice di pace, e quando si rese conto che era venuto fuori in qualche modo il suo vero cognome non accolse l’invito dell’interprete ad offrire un contributo chiarificativo”.
Ma perché la donna non mostrò mai documenti autentici? “E’ innegabile – scrivono i giudici – che le scelte della donna siano state sempre condizionate dalla preoccupazione di non danneggiare gli interessi del marito, a partire da come ella si relazionò con gli operanti all’atto della prima perquisizione (quando comprese benissimo che la Polizia stava cercando lui, e si guardò bene dall’ammettere di esserne la compagna)”. I giudici continuano spiegando che “la persona di cui si procedette all’identificazione, che disse di avere nazionalità centrafricana ma emerse essere kazaka, era regolare in Italia, sulla base dei dati disponibili e che furono valutati dagli imputati? La risposta, da anticipare sin d’ora, è no. Il che, unitamente all’utilizzo da parte della Shalabayeva di un documento ritenuto (a ragione, come parimenti si rileverà) falso, con il conseguente e comunque legittimo trattenimento presso un Cie, ne impose l’espulsione, a quel punto da eseguire solo mediante rimpatrio in Kazakhstan”.