Caporossi è la fondatrice di Animenta, un'associazione no-profit creata per raccontare e sensibilizzare sui Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA)
Oggi 15 marzo si celebra la Giornata del Fiocchetto Lilla. In occasione di questa ricorrenza – che vuole porre l’attenzione sui disturbi del comportamento alimentare – noi di FQMagazine abbiamo parlato con Aurora Caporossi, inserita da Forbes tra le 100 Under 30 “leader del futuro 2022” nella categoria Social Impact. Aurora è la fondatrice di Animenta, un’associazione no-profit creata per raccontare e sensibilizzare sui Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA): “I DCA non sono capricci nè una moda, bensì patologie complesse e democratiche. Possono soffrirne anche gli uomini” e racconta la storia di Leonardo.
Com’è nata Animenta?
L’associazione nasce nel gennaio 2021, il claim è “raccontare per sensibilizzare” perché è una realtà che si occupa di DCA partendo dalle storie di chi ne ha sofferto e di chi ha vissuto accanto a qualcuno che ne ha sofferto. La patologia non riguarda solo la persona affetta ma coinvolge anche tutte le relazioni che questa persona vive. Partiamo dalle storie con l’idea di decostruire gli stereotipi che queste patologie si portano dietro. Tante volte abbiamo sentito che i DCA riguardano solo le donne, che sono capricci, malattie che riguardano gli adolescenti o magari una moda. Di fatto non è così, sono anzi patologie molto complesse. Ecco, le storie ci permettono di raccontare questa complessità. Sono purtroppo patologie democratiche, che non fanno alcun tipo di distinzione.
C’è una storia in particolare che vuoi raccontare?
Sì, una delle storie che racconto spesso è quella di Leonardo. Si tratta di un nome fittizio e, durante l’intervista che gli ho fatto, ho chiesto perché volesse utilizzare un nome fittizio e lui mi ha risposto con una domanda: ‘Se io racconto che soffro di un disturbo del comportamento alimentare, come cambierà la percezione del mio dirigente quando saprà questa cosa?’. Quindi c’è ancora un forte stigma sociale, come se un ragazzo non potesse ammalarsi di queste patologie. Questo purtroppo è un pattern che ricade in molte storie: la paura di chiedere aiuto; a volte è molto difficile perché i DCA sono malattie che vanno a braccetto con il proprio io.
In che senso?
Intendo dire che nei primi mesi, in realtà, si sta anche bene perché la malattia è funzionale, è l’unico modo che tu hai trovato per far fronte a tutto il dolore che stavi provando. Quando una persona soffre di un DCA è come se si trovasse in apnea, quindi tutta la preoccupazione che magari gli altri stanno manifestando, la persona non la vede proprio. In quel momento c’è un meccanismo di sopravvivenza che ti sta aiutando a sopportare quel dolore. Solamente dopo capisci che, quella che tu consideravi un’amica, in realtà era una grandissima falsa amica. Spesso è difficile farlo scoprire a chi soffre di DCA, anche perché ad oggi si sono intrufolati nelle dinamiche quotidiane. Basta pensare a quanti commenti facciamo ad un corpo, specialmente quando perde peso. Noi non sappiamo perché il corpo di una persona si trasforma, per questo non bisogna commentare il corpo né quello che una persona mangia perché è del tutto personale. A volte bisognerebbe dire ‘Fatti i piatti tuoi’ (ride, ndr).
È molto interessante questo aspetto dei commenti ma anche degli esempi sui social di ‘come si mangia’, noi di FQMagazine già ce ne siamo occupati in passato.
Sì perché spesso i commenti riguardanti il cibo sono complimenti se mangi in maniera ‘healthy’ o se mangi poco, altri tipi di commenti se invece sei un corpo che mangia altro tipo di cibo. Ciò perché noi abbiamo una percezione dei corpi che nasce da retaggi culturali molto importanti e perché spesso si parla sui corpi e per i corpi e mai con essi. Non ci fermiamo mai a pensare veramente perché indossiamo un corpo. Infatti noi non siamo un corpo e non lo abbiamo, bensì lo indossiamo. Oggi il corpo è al centro di dibattiti, di giudizi, è un po’ una mappa. Alcune mappe, come la mia – perché poi Animenta parte dalla mia storia personale – si sono sgretolate.
Ecco, se te la senti di parlarne, qual è la tua storia?
Io ho sofferto di anoressia nervosa. Avevo 16 anni, ma in quel momento per me stavo benissimo, ero nella fase che a livello clinico viene chiamata ‘Luna di miele‘. Per me stava funzionando tutto: avevo un ragazzo, ero apprezzata fisicamente perché avevo cominciato a perdere peso, tutti mi facevano i complimenti. Poi piano piano è cominciata a nascere una battaglia tra me e la bilancia: tanto più lei scendeva, tanto più io ero felice. Quindi io ero convinta di avere il controllo su tutto: del peso, del cibo. In realtà, proprio nel momento in cui pensi di poter controllare tutto è lui che controlla te, perché in quel momento non riesci a fare più nulla, ad uscire con gli amici, a mangiare la merenda, a partecipare alla quotidianità anche perché, nella nostra cultura, la nostra socialità passa tantissimo attraverso il cibo. Quindi comincia un progressivo isolamento e poi un cambio dei vestiti: non sentivo il corpo mio e utilizzavo vestiti più larghi. Avevo un’immagine falsata di me stessa allo specchio: il mio corpo, sempre più emaciato, io in realtà non lo percepivo. Anche adesso non mi ricordo com’era il mio corpo.
Chi ti ha aiutato?
Durante gli anni del liceo, il mio professore di religione, insieme a mia madre, se ne accorse. Non facevo più educazione fisica, mi metteva in difficoltà. Mia mamma se n’era accorta da tanto tempo e cominciò a rivolgersi ad alcuni medici: i piatti erano sempre più piccoli. Tutti poi hanno cominciato a vedere la mia anoressia nervosa solo quando quel corpo emaciato era lì. Quindi passai tutta l’estate a casa al mare, però io non davo retta a nessuno, per me stavo bene. La ‘scintilla’ ce l’ho avuta a danza, paradossalmente.
Ovvero?
Perché la danza è sempre stata raccontata come uno dei fattori di rischio. Nel mio caso, invece, no. Io ho avuto un’insegnante di danza che non è mai stata attaccata alla forma del corpo, ma tanto al movimento. Credo che la differenza la faccia chi ti insegna una disciplina, o almeno per quello che è la mia storia, gli specchi della sala danza mi hanno aiutato. Ballo da quando ho 3 anni, ora ne ho 25 e mi sono ammalata a 16. L’unico momento in cui il mio corpo io veramente lo apprezzavo era quando ballavo, la danza mi ha salvato da tante cose. Quando sono stata male, sono tornata a danza, prima di intraprendere poi il percorso di cura perché non avrei potuto ballare in quelle condizioni. Quell’ultima lezione la feci e, per la prima volta, mi accorsi che il mio corpo non mi piaceva e questa cosa mi fece sorgere qualche dubbio. Sono tornata a casa e ho detto: ‘Mamma ti prego aiutami, non so cosa ho fatto al mio corpo‘. Da lì ho cominciato tutto il percorso con una equipe a Roma. La diagnosi è stata di anoressia nervosa, poi per una fase ho sofferto di binge eating e infine sono tornata alla restrizione. Il percorso è stato lungo, ma ora sono qui.
Adesso a che punto sei?
Il mio percorso si è concluso a 20 anni, io ho fondato Animenta quando ho preso consapevolezza che sarei potuta tornare in questo mondo proteggendo me stessa e la mia storia. Questo è molto importante: altrimenti non puoi aiutare gli altri. Sono malattie talmente tanto complesse che a volte è molto difficile mantenere un confine. Prima di fondare Animenta sono tornata in terapia, ne ho parlato con la mia psicologa. E credo che questo valga sempre, anche quando si vuole intraprendere un percorso clinico. Se si ha un passato di DCA e si vuole diventare un professionista che cura queste patologie, è sempre importante capire se si può fare. Altrimenti si fanno dei danni.
A proposito di professionisti, all’interno di Animenta avete delle figure specializzate?
Sì, lavoriamo con psichiatri, psicologi, dietologi, nutrizionisti e poi altre figure come gli antropologi, i sociologi e gli esperti di comunicazione che ci permettono di capire quanto la comunicazione e il ruolo che il corpo ha oggi influenza sulla potenziale insorgenza dei DCA. Solitamente a noi si avvicinano persone molto giovani, famiglie o anche professionisti. Noi spesso facciamo da ponte tra le famiglie e i professionisti. Le nostre attività si svolgono in tutta Italia, anche se la base è a Roma. Abbiamo molte attività gratuite come i lavoratori di cucina; per i percorsi terapeutici con psicoterapeuti, invece, i prezzi sono calmierati.
Parliamo appunto di comunicazione e di social. Come si inseriscono in questo contesto?
Quello che mi sento di dire è che le persone vanno educate alla complessità di certi argomenti, come i DCA. I social sono uno strumento che ci hanno dato ma nessuno ci ha mai insegnato ad usarlo. I DCA sono patologie psichiatriche che, però, trovano terreno fertile nella cultura odierna, quindi nel ruolo che anche i social media hanno nella definizione del corpo, dello stile di vita. L’alimentazione è una scienza e qualcosa di complesso per cui è necessario rivolgersi ai professionisti competenti e non al dottor Google, neanche le diete di Hollywood sono corrette. Le diete sono il primo fattore di rischio nell’insorgenza dei disturbi del comportamento alimentare, questo ce lo dice la letteratura scientifica. Attenzione a parlare di ‘regimi alimentari’. Già il termine ‘regime’ non ci porta a niente di buono, quindi non penso sia corretto. In sostanza è importante rivedere il modo in cui raccontiamo il corpo e il cibo.
Su cosa state lavorando attualmente come associazione?
Bisogna avere, su tutto il territorio italiano, un ambulatorio per ogni provincia. Un ambulatorio che sia costruito ad hoc con una equipe interna per i DCA.
Tra i giovani, rispetto ad esempio alle generazioni precedenti, c’è più consapevolezza su questo tema oppure no?
Quando facciamo attività nelle scuole, vediamo una grandissima consapevolezza da parte dei ragazzi. Nel senso che loro sanno cosa sono i disturbi del comportamento alimentare. Gli insegnanti, invece, a volte non tanto. I giovani, tra i banchi, conoscono molto bene queste patologie. C’è una grande attenzione e una maggior intenzione di prenderci cura prima come persone e poi come ruoli che potremo andare a ricoprire. C’è sicuramente una grande informazione, ma bisogna lavorare molto sulla qualità.
Quali sono gli errori più comuni che si compiono a livello informativo?
Sicuramente le immagini che vogliono romanticizzare i DCA, come quelle dei corpi emaciati. Anche perché non esiste solo l’anoressia nervosa. Allo stesso modo, spesso utilizzare il termine “anoressico”, “anoressica” come aggettivo, non va bene. Si dovrebbe dire “una persona che soffre/ha sofferto di anoressia”, per evitare di identificare la malattia con la persona. O anche utilizzare il peso, che invece non è un parametro così completo. Infine elencare tutte le condotte compensatorie di chi soffre di DCA non lo trovo corretto, soprattutto per chi legge e sta soffrendo di DCA.
Il prossimo evento in programma organizzato dall’Associazione è previsto a Roma: si tratta di un incontro dedicato al racconto dei DCA da più prospettive, per sensibilizzare giovani e adulti su questo importante tema. L’evento, dal titolo “Binario 15”, si terrà sabato 18 marzo dalle 16 alle 21.30 presso Binario F, zona Stazione Termini. Tutte le informazioni sono disponibili sul sito.